Oggi, sabato 2 luglio, una ventina di nemiche e nemici delle frontiere ha ritardato la partenza del treno Obb delle 11.52 nella stazione di Bologna, sulla linea che collega Rimini a Monaco, volantinando sulla banchina e poi spostandosi sui binari con lo striscione “Obb e Trenitalia: comfort per i turisti, blocchi per i migranti, bruciamo le frontiere”.
Il testo del volantino:
Il treno su cui stai per salire è stato inaugurato lo scorso 17 giugno dalle ferrovie austriache Obb per collegare Monaco a Rimini passando per Bologna e così facilitare l’arrivo in Romagna dei turisti austriaci e tedeschi per le vacanze estive.
Dopo le dichiarazioni austriache di non voler costruire una barriera fisica al Brennero, i due stati hanno deciso di intensificare i controlli sui treni che attraversano il confine, quello su cui stai per salire è uno di questi. Tali controlli vengono perpetuati dalla polizia italiana, austriaca e tedesca con lo scopo di identificare e bloccare le persone “non bianche” senza documenti che provano a spostarsi oltre confine. Lo Stato italiano, supportato da quello austriaco e tedesco sta instaurando un vero e proprio regime razzista. In questo modo cerca di rendere le zone di confine impermeabili a tutti coloro che sono costretti a viaggiare senza documenti perché decisi a non sottostare alle condizioni dettate dal Regolamento di Dublino (richiedere asilo nel primo paese europeo d’arrivo) che avviano lunghi tempi d’attesa e procedure burocratiche inconcludenti. Volantiniamo su questo binario per rendere evidente e pubblica la contraddizione in atto: se un da un lato i turisti possono rientrare liberamente alle loro case, i migranti in transito vengono bloccati, respinti, identificati e deportati. Da Choucha a Calais, da Idomeni a Ventimiglia passando per Melilla , Lampedusa e il Brennero, abbattiamo le frontiere esupportiamo la libertà di movimento!
Alcun* nemiche e nemici delle frontiere
Rovereto: boccato il treno Monaco - Rimini
Apprendiamo dai giornali locali che sabato 25 giugno, verso le 14.00, il treno della Deutsche Bahn Monaco - Rimini è stato bloccato nella stazione di Rovereto con una catena da una parte all'altra dei binari.
Posizionato inoltre uno striscione con la scritta "Blocchiamo tutto da Ventimiglia al Brennero".
Londra: resistenza alle retate
Lo scorso lunedì pomeriggio, il quartiere di Deptford, a sud-est di
Londra, ha respinto il team retate dell’ufficio Immigrazione degli
Affari Interni. I bulletti degli Affari Interni, a quanto si dice,
erano stati avvistati diverse volte nelle settimane precedenti mentre
facevano le cosiddette “raccolte di informazioni”, vale a dire
molestando i negozianti per avere il permesso di svolgere “operazioni”
nei loro locali, così da evitare la scocciatura di chiedere un mandato
al tribunale.
Lunedì 13 giugno sono tornati in forze, ma la gente li ha cacciati e
mandati via a mani vuote. Sono partiti con diverse auto civetta ma
hanno abbandonato in strade secondarie i loro furgoni razzisti,
successivamente ristrutturati con finestrini rotti e messaggi scritti
con le bombolette.
La notte successiva, sono apparsi manifesti lungo tutta la strada
principale di Deptford per spiegare quello che era successo.
È importare mantenersi all’erta. È possibile che la resistenza abbia
allontanato le retate per un po’: dopo la resistenza della scorsa
estate, al mercato di East Street non ci sono state visite per quasi
un anno. Ma questa certezza non si può garantire, potrebbero tornare
ogni giorno per vendicarsi. Il manifesto dice: “I bulli dell’ufficio
immigrazione (UKBA) sono stati avvistati per tutta la scorsa settimana
nei dintorni della strada principale di Deptford, molestando i
negozianti. Lunedì sono tornati per le retate contro i lavoratori e
sono stati cacciati via. Nel nostro quartiere i/le migranti sono
benvenut*. Poliziotti, ufficiali giudiziari, proprietari immobiliari
non sono benvenuti! Risponderemo agli attacchi!
network23.org/antiraids”
Il mercato di Deptford è un obiettivo regolare delle retate degli
Affari Interni, spesso fatte insieme a polizia, consiglio comunale e
altri enti. Ad aprile c’è stata l’ultima grande retata. Come per gli
altri mercati di strada di Londra (come quello di East Street), ci
sono chiari collegamenti tra questi attacchi che mirano ai/alle
migranti e gli attacchi più ampi sul quartiere, come quelli di
proprietari immobiliari e autorità statali che collaborano per
“ripulire” l’area, sgomberando tutte le persone considerate
indesiderabili. Ma la resistenza sta crescendo. A Deptford c’è un
banchetto informativo di “Deptford Anti Retate” ogni sabato nel
mercato, e questo lunedì ha mostrato che le persone sono pronte al
contrattacco.
Brescia - Sabotaggio linea ferroviaria contro Beretta e il suo mondo
"Nella notte tra il 17 e il 18 giugno, in occasione dell'inaugurazione dell'ennesimo evento da carrozzone mediatico/turistico "the floating pears", abbiamo deciso di agire.
Colpire là dove più ci aggradava, dove la notte e il bosco erano nostri più cari alleati.
2 legnose barricate erette sulle rotaie della linea ferroviaria Brescia-Iseo-Edolo bloccavano i primi treni, un cavo d'acciaio teso tra le due portava uno striscione con scritto: "Beretta complice della guerra e del suo mondo: frontiere e deportazioni. Sabotiamo tutto!"
Beretta azienda produttrice ed esportatrice di armi e morte in tutto il mondo è protagonista nell'evento "artistico" essendo proprietaria dell'intera isola san Paolo non solo circondata dalla passerella galleggiante ma anche sede di un'intera mostra sulle armi.
Le guerre da sempre prima fonte di enormi profitti per la famiglia Beretta, sono anche il primo ingranaggio del sistema frontiere-deportazioni, causa di morti, schiavitù ed oppressione.
MORTE AI PADRONI DELLA GUERRA E AI LORO SERVI!
-SABOTIAMO TUTTO!-
Alcunx teppistx guastafeste"
Lo scorso lunedì pomeriggio, il quartiere di Deptford, a sud-est di
Londra, ha respinto il team retate dell’ufficio Immigrazione degli
Affari Interni. I bulletti degli Affari Interni, a quanto si dice,
erano stati avvistati diverse volte nelle settimane precedenti mentre
facevano le cosiddette “raccolte di informazioni”, vale a dire
molestando i negozianti per avere il permesso di svolgere “operazioni”
nei loro locali, così da evitare la scocciatura di chiedere un mandato
al tribunale.
Lunedì 13 giugno sono tornati in forze, ma la gente li ha cacciati e
mandati via a mani vuote. Sono partiti con diverse auto civetta ma
hanno abbandonato in strade secondarie i loro furgoni razzisti,
successivamente ristrutturati con finestrini rotti e messaggi scritti
con le bombolette.
La notte successiva, sono apparsi manifesti lungo tutta la strada
principale di Deptford per spiegare quello che era successo.
È importare mantenersi all’erta. È possibile che la resistenza abbia
allontanato le retate per un po’: dopo la resistenza della scorsa
estate, al mercato di East Street non ci sono state visite per quasi
un anno. Ma questa certezza non si può garantire, potrebbero tornare
ogni giorno per vendicarsi. Il manifesto dice: “I bulli dell’ufficio
immigrazione (UKBA) sono stati avvistati per tutta la scorsa settimana
nei dintorni della strada principale di Deptford, molestando i
negozianti. Lunedì sono tornati per le retate contro i lavoratori e
sono stati cacciati via. Nel nostro quartiere i/le migranti sono
benvenut*. Poliziotti, ufficiali giudiziari, proprietari immobiliari
non sono benvenuti! Risponderemo agli attacchi!
network23.org/antiraids”
Il mercato di Deptford è un obiettivo regolare delle retate degli
Affari Interni, spesso fatte insieme a polizia, consiglio comunale e
altri enti. Ad aprile c’è stata l’ultima grande retata. Come per gli
altri mercati di strada di Londra (come quello di East Street), ci
sono chiari collegamenti tra questi attacchi che mirano ai/alle
migranti e gli attacchi più ampi sul quartiere, come quelli di
proprietari immobiliari e autorità statali che collaborano per
“ripulire” l’area, sgomberando tutte le persone considerate
indesiderabili. Ma la resistenza sta crescendo. A Deptford c’è un
banchetto informativo di “Deptford Anti Retate” ogni sabato nel
mercato, e questo lunedì ha mostrato che le persone sono pronte al
contrattacco.
Brescia - Sabotaggio linea ferroviaria contro Beretta e il suo mondo
Sabotiamo le frontiere.
"Da ventimiglia al Brennero sabotiamo le frontiere": attaccati uffici postali a Trento e Rovereto
Apprendiamo dai media locali che, nella notte fra il 9 e il 10 giugno, a Trento e a Rovereto sono stati attaccati due uffici postali: vetrate e bancomat danneggiati. Il giorno dopo gli uffici sono rimasti chiusi. Vergate le seguenti scritte: "Ventimiglia Brennero, fuoco alle frontiere", "Poste=Mistral=deportazioni", "Mistral AIr (=Poste) deporta gli immigrati da Ventimiglia al Brennero sabotiamo le frontiere". La scritta "Poste complici delle deportazioni" è apparsa anche sulle vetrate dell'ufficio postale di Mori, a sud di Rovereto.
"Da ventimiglia al Brennero sabotiamo le frontiere": attaccati uffici postali a Trento e Rovereto
Bologna-Torino-Genova: tentati attacchi incendiari contro Poste Italiane
da crocenera
Dai media di regime si apprende di 3 tentati attacchi incendiari nel giro di 48 ore a sportelli bancomat delle Poste Italiane a Bologna, Genova, Torino.
Il 7 giugno è stata trovata una tanica di benzina, davanti ad un ufficio postale in via Saliceto, nella periferia di Bologna.La tanica era collegata con dei fili ad una sveglia fermata da nastro adesivo nero.Sul posto sono intervenuti Ros, artificieri e Vigili del fuoco.
L’8 giugno viene rinvenuto un ordigno incendiario a Genova nei pressi del bancomat dell’ufficio postale vicino a Spianata Castelletto a nel capoluogo ligure.
Il 9 giugno viene rinvenuta a Torino, davanti ad uno sportello Postamat dell’ufficio postale di via Montebello, nel centro della città ,una tanica di benzina con alcuni cavi. L’ordigno è stato fatto brillare dagli artificieri della polizia .
Sempre i media di regime attribuiscono all’area anarchica i tentati attacchi incendiari.
Dai media di regime si apprende di 3 tentati attacchi incendiari nel giro di 48 ore a sportelli bancomat delle Poste Italiane a Bologna, Genova, Torino.
Il 7 giugno è stata trovata una tanica di benzina, davanti ad un ufficio postale in via Saliceto, nella periferia di Bologna.La tanica era collegata con dei fili ad una sveglia fermata da nastro adesivo nero.Sul posto sono intervenuti Ros, artificieri e Vigili del fuoco.
L’8 giugno viene rinvenuto un ordigno incendiario a Genova nei pressi del bancomat dell’ufficio postale vicino a Spianata Castelletto a nel capoluogo ligure.
Il 9 giugno viene rinvenuta a Torino, davanti ad uno sportello Postamat dell’ufficio postale di via Montebello, nel centro della città ,una tanica di benzina con alcuni cavi. L’ordigno è stato fatto brillare dagli artificieri della polizia .
Sempre i media di regime attribuiscono all’area anarchica i tentati attacchi incendiari.
Genova - Sabotaggio contro Poste Italiane per ruolo nelle deportazioni
da infoma-azione.info
Riceviamo da mail anonima e diffondiamo:
"Nella notte tra il 25 e 26 maggio alcun* nemic* delle frontiere hanno attaccato un ufficio delle Poste italiane: complici nelle deportazioni.
Sono state sabotate le telecamere, il postamat, le vetrate e le insegne.
Dal testo del manifesto affisso sulla porta:
"Attacchiamo e sabotiamo la macchina delle deportazioni in tutte le sue forme.
Solidarietà ai e alle migranti in lotta.
Per la libertà di tutti e tutte di vivere liberamente senza confini ne nazioni.""
Riceviamo da mail anonima e diffondiamo:
"Nella notte tra il 25 e 26 maggio alcun* nemic* delle frontiere hanno attaccato un ufficio delle Poste italiane: complici nelle deportazioni.
Sono state sabotate le telecamere, il postamat, le vetrate e le insegne.
Dal testo del manifesto affisso sulla porta:
"Attacchiamo e sabotiamo la macchina delle deportazioni in tutte le sue forme.
Solidarietà ai e alle migranti in lotta.
Per la libertà di tutti e tutte di vivere liberamente senza confini ne nazioni.""
Lecce - Imbrattati muri e vetrate di un ufficio postale e danneggiato sportello postamat
da informa-azione.info
1 Giugno 2016 - Apprendiamo dai media locali che sconosciuti hanno imbrattato con vernice arancione e nera le vetrate di un ufficio postale di Lecce, mettendo fuori uso lo sportello Postamat.
Lasciate delle scritte contro i Cie (Centri di identificazione ed espulsione).
Poste Italiane è proprietaria della compagnia aerea Mistral Air, che dal 2011 collabora con il ministero dell’Interno nella deportazione degli immigrati indesiderati e destinati all’espulsione.
1 Giugno 2016 - Apprendiamo dai media locali che sconosciuti hanno imbrattato con vernice arancione e nera le vetrate di un ufficio postale di Lecce, mettendo fuori uso lo sportello Postamat.
Lasciate delle scritte contro i Cie (Centri di identificazione ed espulsione).
Poste Italiane è proprietaria della compagnia aerea Mistral Air, che dal 2011 collabora con il ministero dell’Interno nella deportazione degli immigrati indesiderati e destinati all’espulsione.
Torino - Blocco stradale contro le frontiere
da informa-azione.info
Riceviamo da mail anonima e diffondiamo:
BLOCCO DEL TRAFFICO CONTRO LE FRONTIERE
Nel pomeriggio del 2 giugno mentre in piazza castello si svolgeva la consueta cerimonia dell'alzabandiera, contestata dal corteo antimilitarista che sfilava nei pressi della piazza, qualche via più in là veniva bloccata la circolazione di corso vittorio emanuele (arteria torinese).
Su di un cavo d'acciaio, teso da una parte all'altra della strada, uno striscione ha ricordato che Le Frontiere Sono Ovunque.
Ogni muro di cemento ogni muro di polizia, ogni strada militarizzata ogni deportazione e rastrellamento, ogni filo spinato ogni gabbia ed ogni misura repressiva rappresentano una frontiera contro la quale ci scaglieremo.
LIBERTÀ DI MOVIMENTO, MA ANCHE DI RESTARE
PER TUTTE E TUTTI, CON O SENZA DOCUMENTI
Riceviamo da mail anonima e diffondiamo:
BLOCCO DEL TRAFFICO CONTRO LE FRONTIERE
Nel pomeriggio del 2 giugno mentre in piazza castello si svolgeva la consueta cerimonia dell'alzabandiera, contestata dal corteo antimilitarista che sfilava nei pressi della piazza, qualche via più in là veniva bloccata la circolazione di corso vittorio emanuele (arteria torinese).
Su di un cavo d'acciaio, teso da una parte all'altra della strada, uno striscione ha ricordato che Le Frontiere Sono Ovunque.
Ogni muro di cemento ogni muro di polizia, ogni strada militarizzata ogni deportazione e rastrellamento, ogni filo spinato ogni gabbia ed ogni misura repressiva rappresentano una frontiera contro la quale ci scaglieremo.
LIBERTÀ DI MOVIMENTO, MA ANCHE DI RESTARE
PER TUTTE E TUTTI, CON O SENZA DOCUMENTI
Bologna - Azione contro Poste Italiane per il suo ruolo nelle deportazioni
da informa-azione.info
Riceviamo da mail anonima e diffondiamo:
"BOLOGNA. NELLA NOTTE TRA 23 E 24 MAGGIO COLPITI 2 UFFICI POSTALI CON
MAZZE E VERNICE. BANCOMAT FUORI USO. LASCIATA SCRITTA NO DEPORTAZIONI!"
Riceviamo da mail anonima e diffondiamo:
"BOLOGNA. NELLA NOTTE TRA 23 E 24 MAGGIO COLPITI 2 UFFICI POSTALI CON
MAZZE E VERNICE. BANCOMAT FUORI USO. LASCIATA SCRITTA NO DEPORTAZIONI!"
Torino - Azioni contro le deportazioni e in solidarietà con compagn* colpit* dalla repressione
da indymedia piemonte
Azioni contro le deportazioni e in solidarietà ai compagni colpiti dalla repressione
Nella notte tra il 28 e 29 Maggio é stata messa fuori uso la serratura
della BIESSE SISTEMI SRL, azienda che si occupa della manutenzione
all’interno del C.I.E di Torino. Nell’inferiata é stato appeso uno
striscione con su scritto ”BIESSE COMPLICE DELL’ESISTENZA DEI C.I.E,
CONTRO OGNI GABBIA”.
Nella notte tra il 30 e il 31 Maggio sempre a Torino le serrature delle
LAVANDERIE ALBERTI sono andate fuori uso e sulle serrande è comparsa una
scritta: ”COMPLICI DEI CIE”
Sempre la stessa sera ad andare fuori uso è stato un bancomat di POSTE
ITALIANE e sulle vetrate è comparsa la scritta ”COMPLICI DELLE
DEPORTAZIONI NO ALLE FRONTIERE".
Ricordiamo che poste italiane insieme alla compagnia aerea ”MISTRAL AIR”
deporta i migranti rapiti nelle strade per portarli all’interno dei
C.I.E o nei nuovi hotspot o c.a.r.a.
La nostra solidarietà e pensiero va a tutti i reclusi, i migranti che in
questi giorni vengono deportati da Ventimiglia e ai dodici compagni di
Torino colpiti dalla repressione, forti del fatto che le lotte non si
fermeranno.
Azioni contro le deportazioni e in solidarietà ai compagni colpiti dalla repressione
Nella notte tra il 28 e 29 Maggio é stata messa fuori uso la serratura
della BIESSE SISTEMI SRL, azienda che si occupa della manutenzione
all’interno del C.I.E di Torino. Nell’inferiata é stato appeso uno
striscione con su scritto ”BIESSE COMPLICE DELL’ESISTENZA DEI C.I.E,
CONTRO OGNI GABBIA”.
Nella notte tra il 30 e il 31 Maggio sempre a Torino le serrature delle
LAVANDERIE ALBERTI sono andate fuori uso e sulle serrande è comparsa una
scritta: ”COMPLICI DEI CIE”
Sempre la stessa sera ad andare fuori uso è stato un bancomat di POSTE
ITALIANE e sulle vetrate è comparsa la scritta ”COMPLICI DELLE
DEPORTAZIONI NO ALLE FRONTIERE".
Ricordiamo che poste italiane insieme alla compagnia aerea ”MISTRAL AIR”
deporta i migranti rapiti nelle strade per portarli all’interno dei
C.I.E o nei nuovi hotspot o c.a.r.a.
La nostra solidarietà e pensiero va a tutti i reclusi, i migranti che in
questi giorni vengono deportati da Ventimiglia e ai dodici compagni di
Torino colpiti dalla repressione, forti del fatto che le lotte non si
fermeranno.
Bologna - Sabotati bancomat Poste Italiane contro deportazioni Mistral Air
Riceviamo da mail anonima e diffondiamo:
LE POSTE CON LA MISTRAL AIR DEPORTANO.
PER LA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE CONTRO LE DEPORTAZIONI DI
QUESTA EUROPA RAZZISTA
Nella notte tra il 18 e 19 maggio a Bologna sono stati sabotati due bancomat delle poste ed e stato appeso uno striscione contro le deportazioni che la Mistral Air opera per mano dello Stato.
Chiunque conosce perfettamente il ruolo delle Poste Italiane nella gestione della corrispondenza, così come le sue attività finanziarie e nelle telecomunicazioni. In pochi invece sanno che attraverso la compagnia aerea che detiene, la Mistral Air, il Gruppo Poste italiane collabora da cinque anni con il Ministero dell'Interno per il quale si occupa dei trasferimenti delle persone senza documenti tra i CIE rimasti ancora in piedi. Ogni volta che i reclusi si ribellano dando alle fiamme e rendendo inutilizzabili i lager che li imprigionano. La Mistral Air si occupa di accumulare le persone e di trasferirle verso i centri ancora funzionanti. Eppure la complicità delle Poste non si ferma qui, visto il fondamentale ruolo della compagnia nelle deportazioni di chi non ha documenti verso i paesi d'origine con i quali l'Italia ha stipulato accordi di riammissione, in particolare Egitto, Marocco, Tunisia e Nigeria.
Dall'inizio del 2015 la Mistral Air ha provveduto a deportare più di 3000 persone contro la loro
volontà, ricorrendo a ingenti forze di polizia per supervisionare il tutto sotto la minaccia dei manganelli e delle scariche elettriche dei taser.
In solidarietà con i 50 migranti fermati a Ventimiglia e deportati a Taranto con un aereo delle Poste
nell'ultima settimana, con tutt* coloro che cercano di attraversare il confine italo-francese e che dopo il piano Alfano in questi giorni stanno venendo identificati e deportati, con i reclusi di Lampedusa e del sistema Hotspot, con tutt* i reclusi dentro tutti i CIE, con chiunque si trovi oppresso dalla brutalità di uno Stato che per legge nega la vita a migliaia di persone in fuga da guerre, devastazione e
sfruttamento, in solidarietà con i processati e arrestati al Brennero, con chi ogni giorno lotta per
distruggere questo mondo di frontiere, prigioni, dei muri fisici e mentali che cercano di costruire tra di
noi.
E' necessario fare qualcosa per intaccare quantomeno uno degli ingranaggi di quel dispositivo di controllo e repressione che da ogni frontiera si estende sui territori, sulle città e sui corpi di chi le vive ed attraversa.
Abbatteremo ogni frontiera, attaccheremo chi decide di esserne complice.
La solidarietà è un'arma e continueremo a usarla!
HURRIYA!
Frontiere | Ventimiglia - Su rastrellamenti di migranti e repressione di solidaliAggiornamenti da noborders20miglia
Non c'è stato alcuno sgombero del campo di Ventimiglia. È bastata la minaccia di un'azione di forza della polizia a far ripiegare il campo di fortuna sorto qualche settimana fa sulle rive del fiume Roya. È evidentemente la scelta di una comunità fragile, poco sicura di se stessa perché nata in mezzo alle ostilità, in quest'europa in guerra. I/le migranti in viaggio hanno sperato fino all'ultimo che di fronte a una scelta tanto umile l'intervento militare non ci sarebbe stato.
Domenica quindi all'ora indicata dall'ordinanza del sindaco Ioculano migranti e solidali si trovavano in spiaggia, in assemblea, a discutere di dove andare, come rimanere visibili, come riuscire a rimanere a Ventimiglia senza essere deportati. Ai telefoni dei/delle solidali presenti cominciano a giungere telefonate allarmanti. Avvocati, associazioni e altre fonti sono unanimi: ci sono almeno 150 uomini delle forze dell'ordine a Imperia che si preparano ad una grossa operazione. Pullman e aerei sono pronti per il giorno successivo.
L'assemblea ricomincia e alla scelta di resistere prevale il bisogno di protezione. Non tutti sono d'accordo, ma alla fine ci si dirige verso la chiesa più vicina. L'idea è di occuparla senza mediazioni. Le porte della chiesa vengono chiuse, si prova a forzare e il prete pare spaventato, ma poi interviene il Vescovo, di nuovo lui, Suetta, che quando le cose precipitano è sempre pronto a metterci una buona parola.
Molte persone, circa duecento, trovano quindi rifugio in chiesa. In città ce n'è almeno un altro centinaio. In molti non ci stanno e si dirigono verso il confine, altri provano a nascondersi in città. Diversi solidali, vista la situazione, preferiscono restare in strada e continuare a monitorare quanto accade. Si smonta il campo in spiaggia e si cerca comunque di supportare i/le migranti in chiesa. La loro scelta non piace a tutti/e, ma sebbene sia evidente la difficoltà a costruire insieme un discorso collettivo non schiacciato dalla paura, rimane la determinazione di tante persone a non andarsene da Ventimiglia.
Lunedì mattina, poco prima delle 6, è scattata l'operazione di "sgombero" della città. La situazione è grottesca: squadroni di carabinieri, militari, agenti di polizia e della guardia di finanza sfilano per la città dando la caccia ai/alle migranti. Gruppi di almeno una ventina di agenti rastrellano e inseguono poche persone che si nascondono o che non sanno nemmeno cosa stia succedendo.
Una disparità di forze terribile e agghiacciante. La città è militarizzata. I controlli si concentrano dapprima nella zona della spiaggia, della stazione e nel lungo Roia. Le persone vengono fermate, alcune chiuse dentro la sala d'attesa della stazione e viene loro tolto il telefono. Verso le 9 del mattino parte il primo autobus pieno di persone senza documenti, pare diretto verso qualche centro vicino a Ventimiglia.
Per tutto il giorno tra la frontiera alta e la città continuano questi rastrellamenti. Vengono fermate le persone che arrivano con il treno da Genova. Altri due autobus partono verso le 13, questa volta la direzione è Genova dove ad aspettarli pare ci siano dei voli della Mistralair, compagnia area delle Poste Italiane, diretti verso i cara di Mineo e di Bari. Gli ultimi due autobus partono, invece, verso le 16 in direzione dell'autostrada. Non è chiara quale sia la loro meta.
La situazione in stazione a Ventimiglia torna alla normalità: nel corso del pomeriggio i rastrellamenti avvengono direttamente a Genova Principe, dove almeno una decina di persone sono state fermate. Dopo il primo giorno di rilancio del piano Alfano la strategia delle autorità appare la stessa di qualche settimana fa: deportare le persone senza documenti presenti a Ventimiglia e bloccare nuovi arrivi in città. Solo che a questo punto il fallimento di questa politica razzista e violenta può essere mitigato dal protagonismo di santa romana chiesa.
In chiesa le assemblee si susseguono, mentre le notizie di quanto accade a Ventimiglia riempiono i media locali e nazionali. Le cronache dicono che le operazioni di polizia scorrono tranquille, come se la pulizia etnica di una città fosse ordinaria amministrazione. Il resto della scena è tutta del vescovo Suetta, sempre pronto alle emergenze, che propone una tendopoli nel giardino del seminario gestita da Croce Rossa e Protezione Civile. Le tendopoli poi diventano tre, ma in realtà si sa ancora poco delle trattative tra Vescovo, Sindaco e Prefetto. Suetta sembra non aver alcun problema a stare allo stesso tavolo dei responsabili delle deportazioni in corso.
I limiti di queste giornate sono evidenti. La scelta dell'assemblea è stata più un'espressione del bisogno di protezione e della volontà di superare il confine, che una scelta politica. Chiesa cattolica e Croce Rossa hanno mostrato un attivismo già visto in passato e stanno continuando a spostare il discorso pubblico sui bisogni, eludendo la questione centrale, quella del confine e della sua chiusura e guardandosi bene dal denunciare violenze e deportazioni, a cui peraltro la CRI ha spesso e volentieri partecipato. Per la polizia la giornata è stata fin troppo tranquilla, con duecento persone protette dalla chiesa non restava che rastrellare le strade prendendo i/le migranti in piccoli gruppi e aspettando quelli/e che arrivavano in stazione.
Restano comunque delle possibilità. Le persone rifugiate in chiesa sono sfuggite alla deportazione e da due giorni sono in assemblea permanente con i/le solidali presenti. Domani si dovrà uscire da quella maledetta chiesa e a quel punto si capirà meglio dove va la determinazione delle persone in viaggio e di chi le supporta e fino a che punto le autorità sono disposte ad arrivare pur di tener fede ai loro propositi razzisti. La strategia del governo è fallimentare, su questo non ci sono dubbi, e le persone continueranno ad arrivare a Ventimiglia e a bruciare il confine, tutti i giorni.
alcune/i solidali di Ventimiglia e dintorni
al fianco di chi viaggia, contro ogni frontiera
AGGIORNAMENTO:
Post scriptum: mentre finiamo di scrivere queste righe la polizia è entrata dentro la chiesa dove si sono rifugiate le persone senza documenti e ha preso tutte le/gli europee/i solidali. Quindici persone sono state portate nella caserma di polizia e stanno subendo una perquisizione personale ed un identificazione fotodattiloscopica.
Sono stati successivamente emanati fogli di via per molti/e solidali.
La frontiera è ovunque, fermare le merci per fare passare le persone, bloccare tutto, inceppare la macchina delle espulsioni!
LE POSTE CON LA MISTRAL AIR DEPORTANO.
PER LA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE CONTRO LE DEPORTAZIONI DI
QUESTA EUROPA RAZZISTA
Nella notte tra il 18 e 19 maggio a Bologna sono stati sabotati due bancomat delle poste ed e stato appeso uno striscione contro le deportazioni che la Mistral Air opera per mano dello Stato.
Chiunque conosce perfettamente il ruolo delle Poste Italiane nella gestione della corrispondenza, così come le sue attività finanziarie e nelle telecomunicazioni. In pochi invece sanno che attraverso la compagnia aerea che detiene, la Mistral Air, il Gruppo Poste italiane collabora da cinque anni con il Ministero dell'Interno per il quale si occupa dei trasferimenti delle persone senza documenti tra i CIE rimasti ancora in piedi. Ogni volta che i reclusi si ribellano dando alle fiamme e rendendo inutilizzabili i lager che li imprigionano. La Mistral Air si occupa di accumulare le persone e di trasferirle verso i centri ancora funzionanti. Eppure la complicità delle Poste non si ferma qui, visto il fondamentale ruolo della compagnia nelle deportazioni di chi non ha documenti verso i paesi d'origine con i quali l'Italia ha stipulato accordi di riammissione, in particolare Egitto, Marocco, Tunisia e Nigeria.
Dall'inizio del 2015 la Mistral Air ha provveduto a deportare più di 3000 persone contro la loro
volontà, ricorrendo a ingenti forze di polizia per supervisionare il tutto sotto la minaccia dei manganelli e delle scariche elettriche dei taser.
In solidarietà con i 50 migranti fermati a Ventimiglia e deportati a Taranto con un aereo delle Poste
nell'ultima settimana, con tutt* coloro che cercano di attraversare il confine italo-francese e che dopo il piano Alfano in questi giorni stanno venendo identificati e deportati, con i reclusi di Lampedusa e del sistema Hotspot, con tutt* i reclusi dentro tutti i CIE, con chiunque si trovi oppresso dalla brutalità di uno Stato che per legge nega la vita a migliaia di persone in fuga da guerre, devastazione e
sfruttamento, in solidarietà con i processati e arrestati al Brennero, con chi ogni giorno lotta per
distruggere questo mondo di frontiere, prigioni, dei muri fisici e mentali che cercano di costruire tra di
noi.
E' necessario fare qualcosa per intaccare quantomeno uno degli ingranaggi di quel dispositivo di controllo e repressione che da ogni frontiera si estende sui territori, sulle città e sui corpi di chi le vive ed attraversa.
Abbatteremo ogni frontiera, attaccheremo chi decide di esserne complice.
La solidarietà è un'arma e continueremo a usarla!
HURRIYA!
Frontiere | Ventimiglia - Su rastrellamenti di migranti e repressione di solidaliAggiornamenti da noborders20miglia
Non c'è stato alcuno sgombero del campo di Ventimiglia. È bastata la minaccia di un'azione di forza della polizia a far ripiegare il campo di fortuna sorto qualche settimana fa sulle rive del fiume Roya. È evidentemente la scelta di una comunità fragile, poco sicura di se stessa perché nata in mezzo alle ostilità, in quest'europa in guerra. I/le migranti in viaggio hanno sperato fino all'ultimo che di fronte a una scelta tanto umile l'intervento militare non ci sarebbe stato.
Domenica quindi all'ora indicata dall'ordinanza del sindaco Ioculano migranti e solidali si trovavano in spiaggia, in assemblea, a discutere di dove andare, come rimanere visibili, come riuscire a rimanere a Ventimiglia senza essere deportati. Ai telefoni dei/delle solidali presenti cominciano a giungere telefonate allarmanti. Avvocati, associazioni e altre fonti sono unanimi: ci sono almeno 150 uomini delle forze dell'ordine a Imperia che si preparano ad una grossa operazione. Pullman e aerei sono pronti per il giorno successivo.
L'assemblea ricomincia e alla scelta di resistere prevale il bisogno di protezione. Non tutti sono d'accordo, ma alla fine ci si dirige verso la chiesa più vicina. L'idea è di occuparla senza mediazioni. Le porte della chiesa vengono chiuse, si prova a forzare e il prete pare spaventato, ma poi interviene il Vescovo, di nuovo lui, Suetta, che quando le cose precipitano è sempre pronto a metterci una buona parola.
Molte persone, circa duecento, trovano quindi rifugio in chiesa. In città ce n'è almeno un altro centinaio. In molti non ci stanno e si dirigono verso il confine, altri provano a nascondersi in città. Diversi solidali, vista la situazione, preferiscono restare in strada e continuare a monitorare quanto accade. Si smonta il campo in spiaggia e si cerca comunque di supportare i/le migranti in chiesa. La loro scelta non piace a tutti/e, ma sebbene sia evidente la difficoltà a costruire insieme un discorso collettivo non schiacciato dalla paura, rimane la determinazione di tante persone a non andarsene da Ventimiglia.
Lunedì mattina, poco prima delle 6, è scattata l'operazione di "sgombero" della città. La situazione è grottesca: squadroni di carabinieri, militari, agenti di polizia e della guardia di finanza sfilano per la città dando la caccia ai/alle migranti. Gruppi di almeno una ventina di agenti rastrellano e inseguono poche persone che si nascondono o che non sanno nemmeno cosa stia succedendo.
Una disparità di forze terribile e agghiacciante. La città è militarizzata. I controlli si concentrano dapprima nella zona della spiaggia, della stazione e nel lungo Roia. Le persone vengono fermate, alcune chiuse dentro la sala d'attesa della stazione e viene loro tolto il telefono. Verso le 9 del mattino parte il primo autobus pieno di persone senza documenti, pare diretto verso qualche centro vicino a Ventimiglia.
Per tutto il giorno tra la frontiera alta e la città continuano questi rastrellamenti. Vengono fermate le persone che arrivano con il treno da Genova. Altri due autobus partono verso le 13, questa volta la direzione è Genova dove ad aspettarli pare ci siano dei voli della Mistralair, compagnia area delle Poste Italiane, diretti verso i cara di Mineo e di Bari. Gli ultimi due autobus partono, invece, verso le 16 in direzione dell'autostrada. Non è chiara quale sia la loro meta.
La situazione in stazione a Ventimiglia torna alla normalità: nel corso del pomeriggio i rastrellamenti avvengono direttamente a Genova Principe, dove almeno una decina di persone sono state fermate. Dopo il primo giorno di rilancio del piano Alfano la strategia delle autorità appare la stessa di qualche settimana fa: deportare le persone senza documenti presenti a Ventimiglia e bloccare nuovi arrivi in città. Solo che a questo punto il fallimento di questa politica razzista e violenta può essere mitigato dal protagonismo di santa romana chiesa.
In chiesa le assemblee si susseguono, mentre le notizie di quanto accade a Ventimiglia riempiono i media locali e nazionali. Le cronache dicono che le operazioni di polizia scorrono tranquille, come se la pulizia etnica di una città fosse ordinaria amministrazione. Il resto della scena è tutta del vescovo Suetta, sempre pronto alle emergenze, che propone una tendopoli nel giardino del seminario gestita da Croce Rossa e Protezione Civile. Le tendopoli poi diventano tre, ma in realtà si sa ancora poco delle trattative tra Vescovo, Sindaco e Prefetto. Suetta sembra non aver alcun problema a stare allo stesso tavolo dei responsabili delle deportazioni in corso.
I limiti di queste giornate sono evidenti. La scelta dell'assemblea è stata più un'espressione del bisogno di protezione e della volontà di superare il confine, che una scelta politica. Chiesa cattolica e Croce Rossa hanno mostrato un attivismo già visto in passato e stanno continuando a spostare il discorso pubblico sui bisogni, eludendo la questione centrale, quella del confine e della sua chiusura e guardandosi bene dal denunciare violenze e deportazioni, a cui peraltro la CRI ha spesso e volentieri partecipato. Per la polizia la giornata è stata fin troppo tranquilla, con duecento persone protette dalla chiesa non restava che rastrellare le strade prendendo i/le migranti in piccoli gruppi e aspettando quelli/e che arrivavano in stazione.
Restano comunque delle possibilità. Le persone rifugiate in chiesa sono sfuggite alla deportazione e da due giorni sono in assemblea permanente con i/le solidali presenti. Domani si dovrà uscire da quella maledetta chiesa e a quel punto si capirà meglio dove va la determinazione delle persone in viaggio e di chi le supporta e fino a che punto le autorità sono disposte ad arrivare pur di tener fede ai loro propositi razzisti. La strategia del governo è fallimentare, su questo non ci sono dubbi, e le persone continueranno ad arrivare a Ventimiglia e a bruciare il confine, tutti i giorni.
alcune/i solidali di Ventimiglia e dintorni
al fianco di chi viaggia, contro ogni frontiera
AGGIORNAMENTO:
Post scriptum: mentre finiamo di scrivere queste righe la polizia è entrata dentro la chiesa dove si sono rifugiate le persone senza documenti e ha preso tutte le/gli europee/i solidali. Quindici persone sono state portate nella caserma di polizia e stanno subendo una perquisizione personale ed un identificazione fotodattiloscopica.
Sono stati successivamente emanati fogli di via per molti/e solidali.
La frontiera è ovunque, fermare le merci per fare passare le persone, bloccare tutto, inceppare la macchina delle espulsioni!
Qui restiamo e qui lottiamo: comunicato dei 12 banditi torinesi
Segue un comunicato diffuso da 12 compagne e compagni colpiti da diveti di dimora a Torino.
È a Torino che abbiamo visto portare via uomini e donne perché non avevano un documento. A Torino abbiamo visto la polizia caricare un corteo di operai che avevano osato ribellarsi.
A Torino abbiamo visto le pattuglie dei carabinieri aiutare padroni e banche a sbattere in strada i nostri vicini di casa in ritardo con l'affitto o con il mutuo.
A Torino abbiamo visto interi quartieri trasformarsi secondo le esigenze dei ricchi sulla testa dei più poveri che li abitano.
A Torino e nelle sue valli abbiamo visto la celere bastonare le persone accampate a difesa della terra in cui vivono.
Ma a Torino abbiamo anche visto decine di persone sollevarsi per permettere a un clandestino di scappare a un controllo e centinaia di facchini tener testa a chi li voleva cacciare dai cancelli del CAAT. Qui abbiamo visto intere vie chiuse dai cassonetti per respingere un ufficiale giudiziario e decine di abusivi riprendersi la piazza sotto gli occhi impotenti della polizia. È a Venaus che le stesse persone bastonate hanno rialzato la testa e spazzato via plotoni di celere riconquistando il terreno perduto.
Se è vero che ovunque soprusi e ribellioni sono all'ordine del giorno, è a Torino che noi abbiamo deciso di coltivare un sogno comune.
Puntiamo i piedi, qui vogliamo rimanere, qui vogliamo lottare.
Dodici divieti di dimora a chi in una giornata di ottobre era andato presso la sede di Ladisa, ditta fornitrice dei pasti all'interno del Cie di corso Brunelleschi, a restituirgli un po' della merda che quotidianamente somministra ai reclusi. Un'iniziativa all'interno di un percorso di lotta contro il Cie e contro chi lo fa materialmente funzionare.
Sono anni che la Procura ci colpisce incarcerando e allontanando i nostri affetti.
Abbiamo tenuto duro, giorno dopo giorno, affrontando la paura e il dolore che la repressione porta con sé.
Abbiamo portato avanti con fatica le lotte dei compagni allontanati, incarcerati e sorvegliati.
E se in tutti questi anni di lotte a Torino abbiamo affrontato gli attacchi repressivi cercando sempre di spingere un passo più in là i percorsi che si stavano portando avanti, questa volta ci siamo guardati e negli occhi di ognuno abbiamo ritrovato la medesima voglia di non partire.
Questi dodici divieti di dimora sono la goccia che fa traboccare il vaso, non siamo più disposti a razionalizzare la nostra rabbia.
Non accettiamo più di dover salutare compagni e affetti perché costretti ad andarsene
Non accettiamo più che le nostre vite, la nostra quotidianità siano determinate da un pezzo di carta
Non accettiamo più di rinunciare ai progetti che ognuno di noi ha costruito in città e di doverci reinventare altrove
Restiamo qui, esattamente nel punto in cui le nostre coscienze ci costringono a stare.
Per noi questi divieti di dimora sono carta straccia.
Saremo in una radio libera a trasmettere, davanti alla porta di J. per resistere al suo sfratto, sotto le mura del Cie per sostenere le rivolte dei reclusi, nelle strade per opporci alle deportazioni, ovunque ci andrà di stare.
Le conseguenze le conosciamo, con una certezza quasi matematica tra qualche giorno ci porteranno in carcere.
Precisamente nel punto in cui il Tribunale avrà la forza di metterci.
Nel centro esatto del ciclone che sta stravolgendo le nostre vite.
Consapevoli della nostra scelta, forti della solidarietà che non ci lascerà soli, noi da qui non ce ne andiamo.
Banditi a Torino
È a Torino che abbiamo visto portare via uomini e donne perché non avevano un documento. A Torino abbiamo visto la polizia caricare un corteo di operai che avevano osato ribellarsi.
A Torino abbiamo visto le pattuglie dei carabinieri aiutare padroni e banche a sbattere in strada i nostri vicini di casa in ritardo con l'affitto o con il mutuo.
A Torino abbiamo visto interi quartieri trasformarsi secondo le esigenze dei ricchi sulla testa dei più poveri che li abitano.
A Torino e nelle sue valli abbiamo visto la celere bastonare le persone accampate a difesa della terra in cui vivono.
Ma a Torino abbiamo anche visto decine di persone sollevarsi per permettere a un clandestino di scappare a un controllo e centinaia di facchini tener testa a chi li voleva cacciare dai cancelli del CAAT. Qui abbiamo visto intere vie chiuse dai cassonetti per respingere un ufficiale giudiziario e decine di abusivi riprendersi la piazza sotto gli occhi impotenti della polizia. È a Venaus che le stesse persone bastonate hanno rialzato la testa e spazzato via plotoni di celere riconquistando il terreno perduto.
Se è vero che ovunque soprusi e ribellioni sono all'ordine del giorno, è a Torino che noi abbiamo deciso di coltivare un sogno comune.
Puntiamo i piedi, qui vogliamo rimanere, qui vogliamo lottare.
Dodici divieti di dimora a chi in una giornata di ottobre era andato presso la sede di Ladisa, ditta fornitrice dei pasti all'interno del Cie di corso Brunelleschi, a restituirgli un po' della merda che quotidianamente somministra ai reclusi. Un'iniziativa all'interno di un percorso di lotta contro il Cie e contro chi lo fa materialmente funzionare.
Sono anni che la Procura ci colpisce incarcerando e allontanando i nostri affetti.
Abbiamo tenuto duro, giorno dopo giorno, affrontando la paura e il dolore che la repressione porta con sé.
Abbiamo portato avanti con fatica le lotte dei compagni allontanati, incarcerati e sorvegliati.
E se in tutti questi anni di lotte a Torino abbiamo affrontato gli attacchi repressivi cercando sempre di spingere un passo più in là i percorsi che si stavano portando avanti, questa volta ci siamo guardati e negli occhi di ognuno abbiamo ritrovato la medesima voglia di non partire.
Questi dodici divieti di dimora sono la goccia che fa traboccare il vaso, non siamo più disposti a razionalizzare la nostra rabbia.
Non accettiamo più di dover salutare compagni e affetti perché costretti ad andarsene
Non accettiamo più che le nostre vite, la nostra quotidianità siano determinate da un pezzo di carta
Non accettiamo più di rinunciare ai progetti che ognuno di noi ha costruito in città e di doverci reinventare altrove
Restiamo qui, esattamente nel punto in cui le nostre coscienze ci costringono a stare.
Per noi questi divieti di dimora sono carta straccia.
Saremo in una radio libera a trasmettere, davanti alla porta di J. per resistere al suo sfratto, sotto le mura del Cie per sostenere le rivolte dei reclusi, nelle strade per opporci alle deportazioni, ovunque ci andrà di stare.
Le conseguenze le conosciamo, con una certezza quasi matematica tra qualche giorno ci porteranno in carcere.
Precisamente nel punto in cui il Tribunale avrà la forza di metterci.
Nel centro esatto del ciclone che sta stravolgendo le nostre vite.
Consapevoli della nostra scelta, forti della solidarietà che non ci lascerà soli, noi da qui non ce ne andiamo.
Banditi a Torino
Bruciare le frontiere ogni giorno, un contributo torinese
Un contributo torinese
Non è facile cercare di dare una lettura semplice alla gestione europea dei flussi migratori così come si è imposta negli ultimi due anni. I motivi sono molteplici e riguardano soprattutto la provvisorietà delle misure che i singoli Stati hanno adottato per far fronte alle “emergenze” e la differenza stessa di questi provvedimenti, strettamente collegati al contesto territoriale nazionale, cioè al suo posizionamento geografico rispetto ai corridoi di migrazione e al perimetro dell’Eurozona, agli interessi economici interni e a quelli d’investimento nei Paesi stessi da cui migliaia di uomini e donne son partiti. A ragion di questo, avere una visione troppo omogenea di ciò che muove i membri della UE non restituirebbe una visione a fuoco, quanto piuttosto un’idea forfettaria in cui la realtà di competitors economici risulterebbe troppo accontonata rispetto a una natura prettamente e classicamente politica di Stato-nazione.
Un punto d’attacco analitico alla questione è quello di considerare le strategie comuni, così come sono emerse, di messa a profitto dei flussi migratori tenendo tuttavia bene a mente un certo gap d’intenzionalità tra il potere “centrale” di Bruxelles e quello degli specifici governi nazionali. Dacché, in aggiunta, questi ultimi sono inseriti in una graduatoria decisionale data dalla forza economica avranno anche esigenze diverse nella gestione demografica del vecchio continente, e di conseguenza nell’afflusso quantitativo e qualitativo di manodopera immigrata. Del resto è scontato ribadire che ai poteri neoliberali contemporanei s’accompagna sempre una lente che vede le persone come capitale umano, passibile di valorizzazione su più scale, anche quella dell’esclusione. Cercare di capire il significato di sfruttamento insito in questa prospettiva d’interesse, potrebbe esser d’aiuto anche a trovare un punto d’attacco pratico, di lotta, che permetta di trascendere la distinzione tra immigrati e autoctoni per concentrarsi sulle condizioni di sfruttamento che li accomunano.
Ma questo sarebbe già un buon punto in un percorso rivoluzionario. Per ora non si può far a meno di partire dalle specificità, e in questo caso dall’organizzazione e dalle conseguenze del governo della migrazione povera, a partire dall’inserimento integrativo nel tessuto produttivo nazionale, passando per i dispositivi di filtraggio e smistamento (dalle strutture “logistiche”, come i neonati Hotspot, alla frontiera), fino ad arrivare all’espulsione vera e propria nei centri della Detenzione Amministrativa.
D’altra parte gli annunci di costruzione di muri e riproposizione del ruolo della frontiera chiusa nello spazio intra-UE non possono certo esser presi sottogamba. Eppure gli intenti sull’erezione di recinzioni lungo la frontiera italo-austriaca, o la chiusura effettiva di quella tra Svezia e Danimarca e di quella tra Danimarca e Germania, risultano in base ai processi stabiliti dagli ultimi accordi internazionali una soluzione emergenziale data dall’interesse non comune dei Paesi europei. Le soluzioni emergenziali sono certo esse stesse parte di processi strutturali, ma è doveroso riuscire a inserirle in una prospettiva più ampia di governo delle migrazioni verso l’Europa.
Proprio per questo è interessante riportare quali direttive in materia di gestione dei flussi migratori stanno vedendo attuazione. Su questa scia, l’ultimo step è quello presentato il mese scorso da Matteo Renzi ai presidenti del Consiglio e della Commissione UE: un piano per limitare i flussi attraverso una protezione delle frontiere esterne dell’Europa. L’obiettivo non è sono quello di stabilire un limes per impedire gli ingenti arrivi previsti per il prossimo biennio, ma anche quello fondamentale, e assolutamente complementare, di migliorare la tenuta e la “libera circolazione” di Schengen. Il Migration Compact di Renzi è stato ben accolto a Bruxelles, anche perché è il linea con le decisioni prese il novembre scorso a La Valletta tra i leader europei e quelli africani, per «una responsabilità condivisa dei paesi di origine, di transito e di destinazione». Il processo di esternalizzazione della frontiera europea non è tuttavia nato negli ultimi anni ma ha assunto rilevanza nel 2006 con gli accordi di Rabat. Nella capitale amministrativa del Marocco, i governi di 55 paesi europei e africani (Africa settentrionale, occidentale e centrale), insieme alla Commissione europea e alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale si sono incontrati per rafforzare la cooperazione in materia di migrazione. L’obiettivo principale di questa cooperazione? Consentire lo scambio di informazioni tra le autorità al fine di prevenire la migrazione irregolare, la criminalità transfrontaliera e la mobilità dei cosiddetti foreign fighters. Questi tre punti, spesso e volentieri, vengono presentati come indistinti in un generale discorso sulla pericolosità migratoria, quello stesso attraverso cui trovano legittimazione gli interventi militari sulle coste dall’altro lato del Mediterraneo. La cornice interpretativa di questo discorso si sostanzia generalmente in un’esigenza di protezione preventiva, “la società europea militarmente si deve difendere”.
Le linee della guerra trovano nuove sfaccettature con le direttive stabilite a un altro incontro, quello avvenuto nel 2014 a Khartoum. Nella città sudanese gli Stati membri dell’UE insieme a 9 paesi del Corno d’Africa e a paesi di transito hanno concordato, con la solita legittimazione del contrasto alla tratta di esseri umani e alla lotta al terrorismo, una serie d’investimenti europeiin loco con l’intento di prevenire gli spostamenti delle persone. In pratica si tratta per l’Europa di investire, di rafforzare pezzi del proprio mercato nei paesi di origine e transito dei migranti, agevolandone la crescita economica e avendo manodopera certa da radicare.
Oltre a questo livello più prettamente produttivo e indiretto della frontiera esternalizzata, vi è quello del controllo diretto sui flussi. Il Processo di Khartoum, nel solco di quello di Rabat, rafforza la tendenza a trasferire sui paesi terzi, di transito e di origine, il compito di “difendere” le frontiere europee di fronte a un crescente afflusso di migranti; aumenta i controlli anche attraverso l’agenzia FRONTEX, realizzando operazioni di respingimento verso i paesi di origine; cristallizza la cooperazione nella gestione dell’ispezione dei territori attraversati da corridoi migratori e prevede finanziamenti ai campi e alle strutture che selezionino chi può avere una possibilità d’accesso all’Europa. Questi ultimi sono quegli stessi posti concentrazionari da cui i migranti provano a scappare per le condizioni abominevoli a cui sono costretti. Le prigioni per migranti della Libia, il mercato di esseri umani in Turchia e il muro di contenimento al confine siriano, sono in questo senso solo la punta dell’iceberg.
Questi accordi multilaterali prendono in esame anche un agire non preventivo ma successivo alla deportazione dall’Europa ai Paesi d’origine. Il rimpatrio e la riammissione efficaci di coloro che non necessitano di protezione rappresentano una priorità fondamentale per lorsignori tanto che l’UE ha un piano di sostegno alla reintegrazione fatto d’investimenti per il potenziamento dei Paesi d’origine.
Quanto tutto ciò sia effettivamente corrispondente al vero non è dato sapere. Ciò che invece qui da queste parti sta accadendo, è che ci sono dichiarazioni a destra e a manca di rafforzamento del sistema dei respingimenti.
Difatti è recente la notizia che il governo italiano ha in agenda il rafforzamento della macchina delle espulsioni. Dal Viminale Mario Morcone tuona:
“Abbiamo sottoscritto l’impegno con l’Europa ad avere la disponibilità di 1500 posti nei CIE e lo rispetteremo. È vero che attualmente ci sono pochi posti nei CIE, anche perché queste strutture sono costantemente devastate: chi finisce lì è la gente peggiore. Noi li ricostruiamo e loro ce li incendiano. È come un circo con le gabbie dei leoni. Qualcuno che li ha visitati ha detto che preferirebbe stare a San Vittore piuttosto, ma rispetteremo l’impegno con Bruxelles”.
Un punto d’attacco analitico alla questione è quello di considerare le strategie comuni, così come sono emerse, di messa a profitto dei flussi migratori tenendo tuttavia bene a mente un certo gap d’intenzionalità tra il potere “centrale” di Bruxelles e quello degli specifici governi nazionali. Dacché, in aggiunta, questi ultimi sono inseriti in una graduatoria decisionale data dalla forza economica avranno anche esigenze diverse nella gestione demografica del vecchio continente, e di conseguenza nell’afflusso quantitativo e qualitativo di manodopera immigrata. Del resto è scontato ribadire che ai poteri neoliberali contemporanei s’accompagna sempre una lente che vede le persone come capitale umano, passibile di valorizzazione su più scale, anche quella dell’esclusione. Cercare di capire il significato di sfruttamento insito in questa prospettiva d’interesse, potrebbe esser d’aiuto anche a trovare un punto d’attacco pratico, di lotta, che permetta di trascendere la distinzione tra immigrati e autoctoni per concentrarsi sulle condizioni di sfruttamento che li accomunano.
Ma questo sarebbe già un buon punto in un percorso rivoluzionario. Per ora non si può far a meno di partire dalle specificità, e in questo caso dall’organizzazione e dalle conseguenze del governo della migrazione povera, a partire dall’inserimento integrativo nel tessuto produttivo nazionale, passando per i dispositivi di filtraggio e smistamento (dalle strutture “logistiche”, come i neonati Hotspot, alla frontiera), fino ad arrivare all’espulsione vera e propria nei centri della Detenzione Amministrativa.
D’altra parte gli annunci di costruzione di muri e riproposizione del ruolo della frontiera chiusa nello spazio intra-UE non possono certo esser presi sottogamba. Eppure gli intenti sull’erezione di recinzioni lungo la frontiera italo-austriaca, o la chiusura effettiva di quella tra Svezia e Danimarca e di quella tra Danimarca e Germania, risultano in base ai processi stabiliti dagli ultimi accordi internazionali una soluzione emergenziale data dall’interesse non comune dei Paesi europei. Le soluzioni emergenziali sono certo esse stesse parte di processi strutturali, ma è doveroso riuscire a inserirle in una prospettiva più ampia di governo delle migrazioni verso l’Europa.
Proprio per questo è interessante riportare quali direttive in materia di gestione dei flussi migratori stanno vedendo attuazione. Su questa scia, l’ultimo step è quello presentato il mese scorso da Matteo Renzi ai presidenti del Consiglio e della Commissione UE: un piano per limitare i flussi attraverso una protezione delle frontiere esterne dell’Europa. L’obiettivo non è sono quello di stabilire un limes per impedire gli ingenti arrivi previsti per il prossimo biennio, ma anche quello fondamentale, e assolutamente complementare, di migliorare la tenuta e la “libera circolazione” di Schengen. Il Migration Compact di Renzi è stato ben accolto a Bruxelles, anche perché è il linea con le decisioni prese il novembre scorso a La Valletta tra i leader europei e quelli africani, per «una responsabilità condivisa dei paesi di origine, di transito e di destinazione». Il processo di esternalizzazione della frontiera europea non è tuttavia nato negli ultimi anni ma ha assunto rilevanza nel 2006 con gli accordi di Rabat. Nella capitale amministrativa del Marocco, i governi di 55 paesi europei e africani (Africa settentrionale, occidentale e centrale), insieme alla Commissione europea e alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale si sono incontrati per rafforzare la cooperazione in materia di migrazione. L’obiettivo principale di questa cooperazione? Consentire lo scambio di informazioni tra le autorità al fine di prevenire la migrazione irregolare, la criminalità transfrontaliera e la mobilità dei cosiddetti foreign fighters. Questi tre punti, spesso e volentieri, vengono presentati come indistinti in un generale discorso sulla pericolosità migratoria, quello stesso attraverso cui trovano legittimazione gli interventi militari sulle coste dall’altro lato del Mediterraneo. La cornice interpretativa di questo discorso si sostanzia generalmente in un’esigenza di protezione preventiva, “la società europea militarmente si deve difendere”.
Le linee della guerra trovano nuove sfaccettature con le direttive stabilite a un altro incontro, quello avvenuto nel 2014 a Khartoum. Nella città sudanese gli Stati membri dell’UE insieme a 9 paesi del Corno d’Africa e a paesi di transito hanno concordato, con la solita legittimazione del contrasto alla tratta di esseri umani e alla lotta al terrorismo, una serie d’investimenti europeiin loco con l’intento di prevenire gli spostamenti delle persone. In pratica si tratta per l’Europa di investire, di rafforzare pezzi del proprio mercato nei paesi di origine e transito dei migranti, agevolandone la crescita economica e avendo manodopera certa da radicare.
Oltre a questo livello più prettamente produttivo e indiretto della frontiera esternalizzata, vi è quello del controllo diretto sui flussi. Il Processo di Khartoum, nel solco di quello di Rabat, rafforza la tendenza a trasferire sui paesi terzi, di transito e di origine, il compito di “difendere” le frontiere europee di fronte a un crescente afflusso di migranti; aumenta i controlli anche attraverso l’agenzia FRONTEX, realizzando operazioni di respingimento verso i paesi di origine; cristallizza la cooperazione nella gestione dell’ispezione dei territori attraversati da corridoi migratori e prevede finanziamenti ai campi e alle strutture che selezionino chi può avere una possibilità d’accesso all’Europa. Questi ultimi sono quegli stessi posti concentrazionari da cui i migranti provano a scappare per le condizioni abominevoli a cui sono costretti. Le prigioni per migranti della Libia, il mercato di esseri umani in Turchia e il muro di contenimento al confine siriano, sono in questo senso solo la punta dell’iceberg.
Questi accordi multilaterali prendono in esame anche un agire non preventivo ma successivo alla deportazione dall’Europa ai Paesi d’origine. Il rimpatrio e la riammissione efficaci di coloro che non necessitano di protezione rappresentano una priorità fondamentale per lorsignori tanto che l’UE ha un piano di sostegno alla reintegrazione fatto d’investimenti per il potenziamento dei Paesi d’origine.
Quanto tutto ciò sia effettivamente corrispondente al vero non è dato sapere. Ciò che invece qui da queste parti sta accadendo, è che ci sono dichiarazioni a destra e a manca di rafforzamento del sistema dei respingimenti.
Difatti è recente la notizia che il governo italiano ha in agenda il rafforzamento della macchina delle espulsioni. Dal Viminale Mario Morcone tuona:
“Abbiamo sottoscritto l’impegno con l’Europa ad avere la disponibilità di 1500 posti nei CIE e lo rispetteremo. È vero che attualmente ci sono pochi posti nei CIE, anche perché queste strutture sono costantemente devastate: chi finisce lì è la gente peggiore. Noi li ricostruiamo e loro ce li incendiano. È come un circo con le gabbie dei leoni. Qualcuno che li ha visitati ha detto che preferirebbe stare a San Vittore piuttosto, ma rispetteremo l’impegno con Bruxelles”.
La valorizzazione dell’inclusione
Oltre il fattore della limitazione esterna e dell’esclusione delle eccedenze attraverso i respingimenti, il significato dell’integrazione nelle politiche sulla migrazione per l’economia di Schengen è altrattanto rilevante. In soldoni si tratta di selezionare nella maniera più accurata possibile l’iniezione di mano d’opera migrante all’interno del sistema produttivo europeo. Quello che implicano i lavori della Commissione Europea sulla gestione interna è che per salvaguardare la libera circolazione delle merci e la competitività europea nel mercato mondiale è necessario effettuare una più stringente selezione dei migranti in base alle necessità di inserimento produttivo. D’altronde in Paesi come Australia e Gran Bretagna già è previsto un percorso di concessione dei visti-lavoro a “punti” in base alla qualificazione di studio e all’esperienza lavorativa precedente.
In Italia - dicono - ci sono invece troppi clandestini. Il sistema di espulsione non è abbastanza efficiente per coloro i quali, squalificati o dediti a procurarsi da vivere illegalmente, rappresentano un costo troppo elevato in termini di servizi sociali erogati senza contributi e gestione giuridica dei fenomeni di disadattamento e criminalità.
Dall’altra parte, invece, una percentuale più alta di immigrati accertati come qualificati porterebbe un maggior apporto qualitativo a più livelli, in primis quello della maggior pervasività degli investimenti europei nei Paesi d’origine degli immigrati: dall’Egitto alla Libia, il piatto è conteso e non solo tra cugini europei.
La soluzione per lorsignori sta dunque in un miglior apparato di selezione. E non che nonostante i proclami sulla valorizzazione delle alte competenze, non sia a loro funzionale una massa di lavoratori costretti ad avere poche pretese. Quel che dicono è che i “serbatoi di manodopera” servono e hanno già un ruolo essenziale nella crescita economica; tuttavia una certa eccedenza, da funzionale a una tenuta dei salari diretti al ribasso, o in certi casi persin inesistente, non deve diventare un surplus tale da non poter essere gestito.
I migranti non sono ritenuti tutti uguali, ça va sans dire. Infatti nell’ultimo anno è entrata a far parte del linguaggio diffuso la categorizzazione binaria tra “profughi di guerra”, con la possibilità di permanere nel territorio europeo attraverso la richiesta di protezione internazionale, e “migranti economici”, costretti al ricatto del permesso di soggiorno. Già questa prima differenziazione fa una prima selezione giuridica che permette da un lato di considerare indesiderabili e clandestini coloro che vengono da Paesi per cui non è prevista la protezione internazionale, e quindi nella maggior parte dei casi passibili d’espulsione; dall’altro di sfruttare al meglio il tempo di permanenza dei richiedenti asilo nei territori nazionali europei.
È quel che ha formalizzato la cancelliera tedesca in una legge che può esser considerata esemplare. Con il plauso internazionale di media ed economisti, a differenza dell’opinione negativa espressa sui muri minacciati dall’Austria, a metà aprile il governo Merkel ha approvato il “pacchetto integrazione”: degli 800.000 arrivi di migranti nel prossimo anno, oltre la metà non saranno accolti; per tutti gli altri, per lo più rifugiati, non si prospetta però un destino più roseo. Sotto il motto “foerdern und fordern” (tradotto: incentivare e pretendere), la legge infatti stabilisce lo sfruttamento forzato con la creazione di 100.000 posti di lavoro quasi gratuiti, in barba alla legge tedesca sul salario orario minimo di 8,50 euro. “Lavori da un euro” li hanno chiamati beffardamente durante la discussione in Parlamento. Lo stesso provvedimento prevede l’impossibilità di accedere al canonico mercato del lavoro se non tramite l’apprendistato. L’obbligo è quello di sottostare a quest’occupazione, pena il decadimento della tutela internazionale. Al lato produttivo s’accompagna uno più normativo, funzionale al sistema di controllo e alle leggi sull’antiterrorismo, che stabilisce che sia lo Stato a decidere dover far risiedere senza possibilità di spostamento gli immigrati e che ivi debbano seguire corsi di lingua e cultura tedesca.
I provvedimenti tedeschi sono abbastanza palesi da offrirci una buona lente attraverso la quale vedere anche quello che succede più vicino. In Italia l’inserimento nei cicli di sfruttamento tramite le associazioni e le cooperative che si occupano di Seconda Accoglienza è sempre più diffuso, soprattutto tramite il sistema delle borse lavoro o dei tirocini. Ma non solo. Nel capoluogo piemontese ventisette rifugiati hanno aderito al progetto di messa a lavoro “volontario” e gratuito nato dall’intesa tra Comune e Amiat, l’azienda per lo smaltimento dei rifiuti. Con tanto di pettorina con su scritto “Grazie Torino” ripuliscono le strade e il sindaco Fassino la spaccia per una forma di restituzione alla città rispetto all’accoglienza ricevuta.
Tuttavia se è palese il lato dello sfruttamento della manodopera ricattabile in tutti questi progettini sempre più numerosi e diffusi, benché per ora non si sia una legislazione regolamentare nazionale come in Germania, lo è meno quello della selezione e soggettivazione all’empowerment individuale operata all’interno dei processi integrativi della Seconda Accoglienza. Se gli Hotspot rappresentano il punto logistico di smistamento giuridico, le strutture che si occupano di accoglienza integrata, in teoria, sono quelle atte al bilancio delle competenze dei singoli e di selezione economica dei più adeguati al mercato occupazionale locale. Che questo processo sia poi di fatto farraginoso rispetto agli scopi non gli toglie gravità.
In Italia - dicono - ci sono invece troppi clandestini. Il sistema di espulsione non è abbastanza efficiente per coloro i quali, squalificati o dediti a procurarsi da vivere illegalmente, rappresentano un costo troppo elevato in termini di servizi sociali erogati senza contributi e gestione giuridica dei fenomeni di disadattamento e criminalità.
Dall’altra parte, invece, una percentuale più alta di immigrati accertati come qualificati porterebbe un maggior apporto qualitativo a più livelli, in primis quello della maggior pervasività degli investimenti europei nei Paesi d’origine degli immigrati: dall’Egitto alla Libia, il piatto è conteso e non solo tra cugini europei.
La soluzione per lorsignori sta dunque in un miglior apparato di selezione. E non che nonostante i proclami sulla valorizzazione delle alte competenze, non sia a loro funzionale una massa di lavoratori costretti ad avere poche pretese. Quel che dicono è che i “serbatoi di manodopera” servono e hanno già un ruolo essenziale nella crescita economica; tuttavia una certa eccedenza, da funzionale a una tenuta dei salari diretti al ribasso, o in certi casi persin inesistente, non deve diventare un surplus tale da non poter essere gestito.
I migranti non sono ritenuti tutti uguali, ça va sans dire. Infatti nell’ultimo anno è entrata a far parte del linguaggio diffuso la categorizzazione binaria tra “profughi di guerra”, con la possibilità di permanere nel territorio europeo attraverso la richiesta di protezione internazionale, e “migranti economici”, costretti al ricatto del permesso di soggiorno. Già questa prima differenziazione fa una prima selezione giuridica che permette da un lato di considerare indesiderabili e clandestini coloro che vengono da Paesi per cui non è prevista la protezione internazionale, e quindi nella maggior parte dei casi passibili d’espulsione; dall’altro di sfruttare al meglio il tempo di permanenza dei richiedenti asilo nei territori nazionali europei.
È quel che ha formalizzato la cancelliera tedesca in una legge che può esser considerata esemplare. Con il plauso internazionale di media ed economisti, a differenza dell’opinione negativa espressa sui muri minacciati dall’Austria, a metà aprile il governo Merkel ha approvato il “pacchetto integrazione”: degli 800.000 arrivi di migranti nel prossimo anno, oltre la metà non saranno accolti; per tutti gli altri, per lo più rifugiati, non si prospetta però un destino più roseo. Sotto il motto “foerdern und fordern” (tradotto: incentivare e pretendere), la legge infatti stabilisce lo sfruttamento forzato con la creazione di 100.000 posti di lavoro quasi gratuiti, in barba alla legge tedesca sul salario orario minimo di 8,50 euro. “Lavori da un euro” li hanno chiamati beffardamente durante la discussione in Parlamento. Lo stesso provvedimento prevede l’impossibilità di accedere al canonico mercato del lavoro se non tramite l’apprendistato. L’obbligo è quello di sottostare a quest’occupazione, pena il decadimento della tutela internazionale. Al lato produttivo s’accompagna uno più normativo, funzionale al sistema di controllo e alle leggi sull’antiterrorismo, che stabilisce che sia lo Stato a decidere dover far risiedere senza possibilità di spostamento gli immigrati e che ivi debbano seguire corsi di lingua e cultura tedesca.
I provvedimenti tedeschi sono abbastanza palesi da offrirci una buona lente attraverso la quale vedere anche quello che succede più vicino. In Italia l’inserimento nei cicli di sfruttamento tramite le associazioni e le cooperative che si occupano di Seconda Accoglienza è sempre più diffuso, soprattutto tramite il sistema delle borse lavoro o dei tirocini. Ma non solo. Nel capoluogo piemontese ventisette rifugiati hanno aderito al progetto di messa a lavoro “volontario” e gratuito nato dall’intesa tra Comune e Amiat, l’azienda per lo smaltimento dei rifiuti. Con tanto di pettorina con su scritto “Grazie Torino” ripuliscono le strade e il sindaco Fassino la spaccia per una forma di restituzione alla città rispetto all’accoglienza ricevuta.
Tuttavia se è palese il lato dello sfruttamento della manodopera ricattabile in tutti questi progettini sempre più numerosi e diffusi, benché per ora non si sia una legislazione regolamentare nazionale come in Germania, lo è meno quello della selezione e soggettivazione all’empowerment individuale operata all’interno dei processi integrativi della Seconda Accoglienza. Se gli Hotspot rappresentano il punto logistico di smistamento giuridico, le strutture che si occupano di accoglienza integrata, in teoria, sono quelle atte al bilancio delle competenze dei singoli e di selezione economica dei più adeguati al mercato occupazionale locale. Che questo processo sia poi di fatto farraginoso rispetto agli scopi non gli toglie gravità.
Il contenimento nelle strutture della Seconda Accoglienza
I luoghi della Seconda Accoglienza, lo SPRAR, i CARA e i CAS, presentati dalle istituzioni come i luoghi dell’integrazione e dell’inserimento dell’immigrato, assolvono a funzioni strutturali nel controllo e nella gestione di una parte del flusso migratorio e nella sua messa a valore in senso economico.
È necessario, tuttavia, fare delle opportune differenze tra le diverse strutture della Seconda Accoglienza, in modo da poterne cogliere sia le particolarità che le differenti criticità.
I CARA sono centri enormi, 13 sul territorio italiano, la cui sicurezza interna è garantita da militari e forze dell’ordine, spesso in strutture che un tempo erano CIE. Il loro ruolo è più chiaro se si considera che al loro interno sono presenti le unità per i rilievi dattiloscopici.
I CAS (Centro d’Accoglienza Straordinaria), che rappresentano la modalità d’accoglienza più in uso in Italia, sono un insieme di centri, piccoli o grandi, sparsi per il territorio italiano. Questi sono caratterizzati dal criterio dell’emergenzialità sia per la scelta della struttura che per l’assegnazione della gestione all’ente.
Lo SPRAR, invece, acronimo che sta per sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, detto anche sistema dell’accoglienza diffusa, è un insieme di progetti integrativi per l’immigrato, volti al suo inserimento sociale ed economico all’interno della società italiana. Tale sistema utilizza come luoghi per l’accoglienza strutture fisiche delle più diverse, da appartamenti a fabbricati fino a caserme o alberghi.
Le cooperative, i consorzi o le aziende che lavorano all’interno di queste strutture sono svariati, alcune specializzati nel controllo dell’immigrazione e con un’esperienza ormai assodata nella gestione di numeri considerevoli di immigrati concentrati in una medesimo posto, altre, invece, sono piccole o grandi associazioni, nate e cresciute nel contesto dell’assistenza e dei servizi alla persona. Inoltre, molti di questi enti sono i medesimi che hanno gestito o gestiscono tuttora i CIE e che negli anni sono diventati professionisti del settore. Di fatto, non è azzardato considerarli come strutture semi-detentive in cui gli immigrati vivono senza la possibilità di poter gestire autonomamente la propria esistenza. Un regolamento interno, orari di sveglia e di rientro notturno, l’impossibilità di scegliere con chi vivere e cosa mangiare, l’obbligo di comunicare i propri spostamenti sono, infatti, la base normativa di questi luoghi. Le condizioni di vita dei richiedenti sono così caratterizzate da una sospensione perpetua, un’attesa infinita della risposta della Commissione Territoriale e, quindi, da una dipendenza dalla struttura accogliente.
Benché i tempi di permanenza dovrebbero essere di 35 giorni nei CARA e di 6 mesi rinnovabili negli SPRAR, una persona richiedente asilo può stazionare in questi “parcheggi” anche per diversi anni, in una totale incertezza riguardo al proprio futuro giuridico.
I servizi offerti malgrado siano presentati dalle istituzioni come strumenti finalizzati all’indipendenza del soggetto, assurgono nella realtà l’effetto di fortificare, attraverso il soddisfacimento di alcuni bisogni, il legame di subordinazione fra il migrante e il sistema d’accoglienza. Infatti, nonostante all’immigrato sia garantita la possibilità di poter uscire durante la giornata, gli sia corrisposto un pocket money o offerto un abbonamento per i mezzi pubblici, le sue possibilità di emancipazione dal sistema d’accoglienza sono molto remote. Basti pensare all’isolamento in cui, spesso e volentieri, si trova chi sta in questi posti, all’impossibilità di conoscere la realtà che li circonda se non attraverso i canali offerti o alla possibilità mancata di soddisfare autonomamente i propri bisogni.
Tale condizione generale che contrasta con l’autonomia e l’autodeterminazione dell’individuo assume un aspetto ancora più eclatante proprio nei progetti SPRAR, dove è il percorso d’integrazione a essere posto come centrale. Nei progetti di inserimento infatti un concetto fondante è quello d’empowerment, ovvero di potenziamento del soggetto, partendo però dall’immagine dell’immigrato come soggetto debole in possesso di qualità personali, sociali o lavorative in difetto e che devono essere per questo stimolate attraverso percorsi istituzionalizzati. Una contraddizione fra l’offerta di strumenti per l’autonomia individuale, l’immagine categorizzata del migrante e la condizione di dipendenza effettiva.
Un altro elemento contraddittorio emerge se si guarda alle statistiche sugli esiti generali delle domande di protezione. Nel 2015, infatti, il 56% delle richieste hanno ricevuto il diniego dalle Commissioni Territoriali. Se si considera che il sistema della Seconda Accoglienza si basa principalmente sui richiedenti asilo, persone che possono rientrare facilmente in una condizione di irregolarità, sorge spontaneo chiedersi a chi servano i percorsi integrativi. Infatti, sembra piuttosto che i corsi di italiano o l’orientamento formativo, legale o abitativo, siano degli elementi fortemente funzionali alla giustificazione dell’esistenza stessa di questo sistema e del business ad esso sotteso.
Business che è tutt’altro che marginale. Solo per citare un esempio, i soldi corrisposti dalla Prefettura all’ente gestore per quanto riguarda il CARA di Mineo sono 140.000 euro al giorno, cifra che ammonta intorno a 40 milioni annui. Il richiedente asilo per un determinato periodo di tempo è, infatti, messo a valore, sia attraverso i finanziamenti che fanno guadagnare chi gestisce i centri della Seconda Accoglienza, sia attraverso lo sfruttamento della sua forza lavoro.
Negli SPRAR, dove sono presenti gli immigrati in attesa di un permesso umanitario, viene corrisposta una cifra pro-capite anche se, in molti casi, permangono in queste strutture anche coloro ai quali è stata negato il permesso e che di conseguenza dovrebbero perdere il diritto di rimanerci.
L’interesse principale per i gestori di tali strutture sembra proprio quello di riempirle il più possibile moltiplicando gli introiti in una logica economica di scala.
Il mondo della Seconda Accoglienza è in aggiunta anche un grosso bacino di manodopera a basso costo o a costo zero per aziende e imprese. La messa a lavoro dell’immigrato può passare sia per canali legali, assumendo la forma delle cosiddette borse-lavoro o del lavoro volontario, sia attraverso vie parallele come il lavoro in nero. Ciò che accomuna queste differenti forme di sfruttamento è la messa a profitto del richiedente asilo obbligato a vivere per anni in attesa dell’esito della domanda di protezione.
Proprio questa condizione limbica ha portato nell’ultimo anno a un aumento delle proteste degli “ospiti” che hanno lamentano l’inattività obbligata, le attese infinite dovute alle lungaggini burocratiche nelle quali incappa ogni singola richiesta d’asilo e i conseguenti dinieghi, la mancata erogazione di bonus quali i pocket money e gli abbonamenti gratuiti ai servizi pubblici, il cibo di pessima qualità che in alcuni casi non viene addirittura servito.
A far da sfondo alle singole motivazioni è la sensazione di essere letteralmente parcheggiati. I rifugiati sono riusciti a far conoscere le proprie rivendicazioni bloccando strade, occupando i centri di accoglienza, impedendo l’entrata ai vari operatori, organizzando manifestazioni sotto alle Prefetture dove erano bloccate le pratiche per le richieste d’asilo, rifiutando il cibo scadente fornito nelle mense. Questi sono solo alcuni esempi usciti dalle cronache locali ai quali vanno aggiunti le fughe e gli allontanamenti.
È necessario, tuttavia, fare delle opportune differenze tra le diverse strutture della Seconda Accoglienza, in modo da poterne cogliere sia le particolarità che le differenti criticità.
I CARA sono centri enormi, 13 sul territorio italiano, la cui sicurezza interna è garantita da militari e forze dell’ordine, spesso in strutture che un tempo erano CIE. Il loro ruolo è più chiaro se si considera che al loro interno sono presenti le unità per i rilievi dattiloscopici.
I CAS (Centro d’Accoglienza Straordinaria), che rappresentano la modalità d’accoglienza più in uso in Italia, sono un insieme di centri, piccoli o grandi, sparsi per il territorio italiano. Questi sono caratterizzati dal criterio dell’emergenzialità sia per la scelta della struttura che per l’assegnazione della gestione all’ente.
Lo SPRAR, invece, acronimo che sta per sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, detto anche sistema dell’accoglienza diffusa, è un insieme di progetti integrativi per l’immigrato, volti al suo inserimento sociale ed economico all’interno della società italiana. Tale sistema utilizza come luoghi per l’accoglienza strutture fisiche delle più diverse, da appartamenti a fabbricati fino a caserme o alberghi.
Le cooperative, i consorzi o le aziende che lavorano all’interno di queste strutture sono svariati, alcune specializzati nel controllo dell’immigrazione e con un’esperienza ormai assodata nella gestione di numeri considerevoli di immigrati concentrati in una medesimo posto, altre, invece, sono piccole o grandi associazioni, nate e cresciute nel contesto dell’assistenza e dei servizi alla persona. Inoltre, molti di questi enti sono i medesimi che hanno gestito o gestiscono tuttora i CIE e che negli anni sono diventati professionisti del settore. Di fatto, non è azzardato considerarli come strutture semi-detentive in cui gli immigrati vivono senza la possibilità di poter gestire autonomamente la propria esistenza. Un regolamento interno, orari di sveglia e di rientro notturno, l’impossibilità di scegliere con chi vivere e cosa mangiare, l’obbligo di comunicare i propri spostamenti sono, infatti, la base normativa di questi luoghi. Le condizioni di vita dei richiedenti sono così caratterizzate da una sospensione perpetua, un’attesa infinita della risposta della Commissione Territoriale e, quindi, da una dipendenza dalla struttura accogliente.
Benché i tempi di permanenza dovrebbero essere di 35 giorni nei CARA e di 6 mesi rinnovabili negli SPRAR, una persona richiedente asilo può stazionare in questi “parcheggi” anche per diversi anni, in una totale incertezza riguardo al proprio futuro giuridico.
I servizi offerti malgrado siano presentati dalle istituzioni come strumenti finalizzati all’indipendenza del soggetto, assurgono nella realtà l’effetto di fortificare, attraverso il soddisfacimento di alcuni bisogni, il legame di subordinazione fra il migrante e il sistema d’accoglienza. Infatti, nonostante all’immigrato sia garantita la possibilità di poter uscire durante la giornata, gli sia corrisposto un pocket money o offerto un abbonamento per i mezzi pubblici, le sue possibilità di emancipazione dal sistema d’accoglienza sono molto remote. Basti pensare all’isolamento in cui, spesso e volentieri, si trova chi sta in questi posti, all’impossibilità di conoscere la realtà che li circonda se non attraverso i canali offerti o alla possibilità mancata di soddisfare autonomamente i propri bisogni.
Tale condizione generale che contrasta con l’autonomia e l’autodeterminazione dell’individuo assume un aspetto ancora più eclatante proprio nei progetti SPRAR, dove è il percorso d’integrazione a essere posto come centrale. Nei progetti di inserimento infatti un concetto fondante è quello d’empowerment, ovvero di potenziamento del soggetto, partendo però dall’immagine dell’immigrato come soggetto debole in possesso di qualità personali, sociali o lavorative in difetto e che devono essere per questo stimolate attraverso percorsi istituzionalizzati. Una contraddizione fra l’offerta di strumenti per l’autonomia individuale, l’immagine categorizzata del migrante e la condizione di dipendenza effettiva.
Un altro elemento contraddittorio emerge se si guarda alle statistiche sugli esiti generali delle domande di protezione. Nel 2015, infatti, il 56% delle richieste hanno ricevuto il diniego dalle Commissioni Territoriali. Se si considera che il sistema della Seconda Accoglienza si basa principalmente sui richiedenti asilo, persone che possono rientrare facilmente in una condizione di irregolarità, sorge spontaneo chiedersi a chi servano i percorsi integrativi. Infatti, sembra piuttosto che i corsi di italiano o l’orientamento formativo, legale o abitativo, siano degli elementi fortemente funzionali alla giustificazione dell’esistenza stessa di questo sistema e del business ad esso sotteso.
Business che è tutt’altro che marginale. Solo per citare un esempio, i soldi corrisposti dalla Prefettura all’ente gestore per quanto riguarda il CARA di Mineo sono 140.000 euro al giorno, cifra che ammonta intorno a 40 milioni annui. Il richiedente asilo per un determinato periodo di tempo è, infatti, messo a valore, sia attraverso i finanziamenti che fanno guadagnare chi gestisce i centri della Seconda Accoglienza, sia attraverso lo sfruttamento della sua forza lavoro.
Negli SPRAR, dove sono presenti gli immigrati in attesa di un permesso umanitario, viene corrisposta una cifra pro-capite anche se, in molti casi, permangono in queste strutture anche coloro ai quali è stata negato il permesso e che di conseguenza dovrebbero perdere il diritto di rimanerci.
L’interesse principale per i gestori di tali strutture sembra proprio quello di riempirle il più possibile moltiplicando gli introiti in una logica economica di scala.
Il mondo della Seconda Accoglienza è in aggiunta anche un grosso bacino di manodopera a basso costo o a costo zero per aziende e imprese. La messa a lavoro dell’immigrato può passare sia per canali legali, assumendo la forma delle cosiddette borse-lavoro o del lavoro volontario, sia attraverso vie parallele come il lavoro in nero. Ciò che accomuna queste differenti forme di sfruttamento è la messa a profitto del richiedente asilo obbligato a vivere per anni in attesa dell’esito della domanda di protezione.
Proprio questa condizione limbica ha portato nell’ultimo anno a un aumento delle proteste degli “ospiti” che hanno lamentano l’inattività obbligata, le attese infinite dovute alle lungaggini burocratiche nelle quali incappa ogni singola richiesta d’asilo e i conseguenti dinieghi, la mancata erogazione di bonus quali i pocket money e gli abbonamenti gratuiti ai servizi pubblici, il cibo di pessima qualità che in alcuni casi non viene addirittura servito.
A far da sfondo alle singole motivazioni è la sensazione di essere letteralmente parcheggiati. I rifugiati sono riusciti a far conoscere le proprie rivendicazioni bloccando strade, occupando i centri di accoglienza, impedendo l’entrata ai vari operatori, organizzando manifestazioni sotto alle Prefetture dove erano bloccate le pratiche per le richieste d’asilo, rifiutando il cibo scadente fornito nelle mense. Questi sono solo alcuni esempi usciti dalle cronache locali ai quali vanno aggiunti le fughe e gli allontanamenti.
La valorizzazione dell’esclusione
Il processo di valorizzazione della manodopera straniera passa attraverso il filtraggio e la categorizzazione degli immigrati, secondo criteri che si vorrebbero sempre più selettivi e funzionali al mercato del lavoro. Tale processo non può che aumentare il numero degli esclusi, cioè di coloro ai quali vengono negate le condizioni minime di sostentamento.
Se da una parte un numero sempre maggiore di immigrati di recente arrivo vengono inseriti nei percorsi di integrazione andando a riempire strutture adibite alla Seconda Accoglienza, dall’altra lo “scarto”, ovvero molti degli immigrati cosiddetti economici, prendono la strada dell’irregolarità. Tuttavia, stando al rapporto sulla Detenzione Amministrativa del febbraio 2016, meno del 10% degli scartati è finito in un CIE, quindi la stragrande maggioranza ha ricevuto soltanto un foglio di espulsione. La maggior parte di coloro che vengono identificati negli Hotspot e categorizzati come irregolari dai CIE non ci passa. Nei centri della Detenzione Amministrativa non c’è posto perché queste strutture vengono continuamente incendiate dai reclusi.
D’altro canto, vero è che la macchina delle espulsioni, anche nella sua piena potenzialità, non potrebbe mai colmare l’esigenza di contenimento ed espulsione dei tantissimi senza-documenti. I 1.500 posti in più richiesti all’Italia dall’Unione Europea risultano essere quindi una piccola pezza, funzionale se non altro al potere di deterrenza del CIE. Va da sé che il ricatto del permesso o la minaccia di espulsione costringono molti immigrati senza le carte in regola ad accettare qualsiasi condizione lavorativa, spingendo sempre più in basso l’asticella del livello salariale.
Non si può però dimenticare l’aspetto significativo della messa a profitto degli immigrati irregolari che nel CIE ci finiscono. L’enorme introito percepito dagli enti gestori è garantito da un pagamento pro-capite dei reclusi. Inoltre lo Stato prevede, su richiesta dell’ente gestore, la possibilità del pagamento della metà dei posti disponibili anche quando a seguito di rivolte e incendi delle aree, il numero di reclusi diminuisce considerevolmente.
Se la macchina delle espulsioni non assolve tutte le sue funzioni, non è detto che i governanti di fronte alla previsione di crescita dei flussi migratori non decidano di vagliare altre strade. È ciò che suggerisce la notizia di questo maggio: decine di immigrati che protestavano a Lampedusa contro i rilievi dattiloscopici nell’Hotspot sono stati caricati in voli charter e rimpatriati. Non è da escludere che la gestione emergenziale della migrazione apra alla regolamentazione dell’espulsione diretta.
Se da una parte un numero sempre maggiore di immigrati di recente arrivo vengono inseriti nei percorsi di integrazione andando a riempire strutture adibite alla Seconda Accoglienza, dall’altra lo “scarto”, ovvero molti degli immigrati cosiddetti economici, prendono la strada dell’irregolarità. Tuttavia, stando al rapporto sulla Detenzione Amministrativa del febbraio 2016, meno del 10% degli scartati è finito in un CIE, quindi la stragrande maggioranza ha ricevuto soltanto un foglio di espulsione. La maggior parte di coloro che vengono identificati negli Hotspot e categorizzati come irregolari dai CIE non ci passa. Nei centri della Detenzione Amministrativa non c’è posto perché queste strutture vengono continuamente incendiate dai reclusi.
D’altro canto, vero è che la macchina delle espulsioni, anche nella sua piena potenzialità, non potrebbe mai colmare l’esigenza di contenimento ed espulsione dei tantissimi senza-documenti. I 1.500 posti in più richiesti all’Italia dall’Unione Europea risultano essere quindi una piccola pezza, funzionale se non altro al potere di deterrenza del CIE. Va da sé che il ricatto del permesso o la minaccia di espulsione costringono molti immigrati senza le carte in regola ad accettare qualsiasi condizione lavorativa, spingendo sempre più in basso l’asticella del livello salariale.
Non si può però dimenticare l’aspetto significativo della messa a profitto degli immigrati irregolari che nel CIE ci finiscono. L’enorme introito percepito dagli enti gestori è garantito da un pagamento pro-capite dei reclusi. Inoltre lo Stato prevede, su richiesta dell’ente gestore, la possibilità del pagamento della metà dei posti disponibili anche quando a seguito di rivolte e incendi delle aree, il numero di reclusi diminuisce considerevolmente.
Se la macchina delle espulsioni non assolve tutte le sue funzioni, non è detto che i governanti di fronte alla previsione di crescita dei flussi migratori non decidano di vagliare altre strade. È ciò che suggerisce la notizia di questo maggio: decine di immigrati che protestavano a Lampedusa contro i rilievi dattiloscopici nell’Hotspot sono stati caricati in voli charter e rimpatriati. Non è da escludere che la gestione emergenziale della migrazione apra alla regolamentazione dell’espulsione diretta.
Uno sguardo sulla “Seconda Accoglienza” in Piemonte
In Piemonte, secondo i dati dell’agosto 2015, ci sarebbero 5292 persone presenti all’interno delle strutture di Seconda Accoglienza della Regione, divise tra CAS (4461) e progetti SPRAR (821). È interessante notare come gli arrivi nelle strutture, in totale 10427, non coincidano con le presenze effettive, segno dell’altissimo indice di abbandono immediato. La maggior parte dei richiedenti protezione internazionale è ospitata all’interno di strutture di Torino e provincia, 1699 persone, il restante diviso per le altre province piemontesi. Gli edifici in questione sono molto differenti tra loro: appartamenti, hotel o piccoli fabbricati, caserme o veri e propri centri con centinaia di persone. Questi ultimi a volte sono costituiti da container, o in certi casi sono vere e proprie tendopoli come accade per il centro SPRAR di Settimo Torinese che, nei periodi di punta, contiene più di 300 persone. L’intero sistema regionale legato all’Accoglienza Secondaria comprende un insieme di differenti associazioni e cooperative, piccole o grandi, alcune delle quali sono i soliti volti noti della gestione degli immigrati in Italia. In generale, a causa dell’emergenzialità legata alle strutture CAS, è estremamente difficile riuscire ad individuare proprio tutti gli enti che nella Regione Piemonte fanno soldi con la gestione degli immigrati. Ciò che si può fare è offrire un panorama generale di chi, a fasi alterne, partecipa e si aggiudica i bandi della Prefettura o da questa viene scelto in via emergenziale.
Gli enti gestori dell’Accoglienza sono, come detto, numerosi e presentano caratteri differenti. Guardando gli ultimi dati della Prefettura sui progetti SPRAR 2015 a Torino emergono entità delle più svariate. Ad esempio la Diaconia Valdese, gestore dell’accoglienza di 139 persone tra Torino e provincia, organo della Chiesa Evangelica Valdese che si occupa in molte zone d’Italia di servizi alla persona, assistenza socio-sanitaria, alternativa al carcere e formazione. L’Associazione Recosol - Rete dei Comuni Solidali, nata a Carmagnola ma diffusasi in molti comuni italiani, impegnata nel promuovere cooperazione decentrata nei Paesi in via di sviluppo e per ultimo lanciatasi nel guadagno dei progetti SPRAR. C’è poi la Progest Cooperativa sociale Onlus, gestore del centro per immigrati di San Gillio in provincia di Torino, che si occupa anche di servizi a minori, anziani e di centri terapeutici di salute mentale come le comunità terapeutiche “Il Barocchio” e “Il Giglio”. Poi la Codeal di Aosta, branca della più grossa 3bite, specializzata nella consulenza, nella realizzazione e nella gestione di soluzioni e di servizi integrati nel campo della comunicazione e delle nuove tecnologie. La coop Atypica, anch’esso gruppo assegnatario di una parte di un lotto d’accoglienza d’immigrati, che si occupa di mediazione culturale, infanzia e che gestisce anche un piccolo hotel all’interno del parco di Collegno. Alcuni enti sono nati e costruiti intorno ai progetti educativi e di mediazione culturale, come la Coop Edu-care e Terremondo, altri in progetti integrativi dei soggetti svantaggiati, come la Coop 610, altri ancora sono associazioni di promozione sociale come Tra-Me di Carignano o più schiettamente fornitrici di servizi come la Dinamo Coop. Insomma un panorama variegato ed eterogeneo.
Nella città di Torino, tra gli enti più presenti per la gestione degli appalti sulla Seconda Accoglienza ci sono il consorzio di cooperative Kairòs e la, sempreverde, Croce Rossa Italiana.Il consorzio di cooperative Kairòs è il gruppo fondatore e branca torinese della più conosciuta e famigerata Connecting People. Quest’ultima cooperativa non ha bisogno certo di presentazioni vista la sua decennale esperienza nella gestione dei Centri d’identificazione ed espulsione italiani.
Il consorzio estende la sua rete di guadagno su tutta la filiera dell’accoglienza ma non solo perché si occupa, per fare un esempio, attraverso l’associazione Ecosol, anche della gestione del lavoro dei detenuti nel carcere delle Vallette, oltre a essere una vera e propria potenza economica in città come produttore di welfare privatistico.
Attraverso la cooperativa Esserci, gestisce strutture della Seconda Accoglienza da centinaia di posti, allo stesso tempo promuove progetti per l’inserimento lavorativo attraverso accordi con la Regione e le aziende, creando un bacino di manodopera a costo zero attraverso il sistema delle borse lavoro elargite dalla Regione, 25 ore settimanali pagate 3,50 euro all’ora.
Il consorzio Kairòs non è l’unico esempio di chi vanta una lunga esperienza nella gestione dei CIE; la Croce Rossa che per anni e anni si è aggiudicata la gestione dei CIE italiani e ancora concorre per l’aggiudicazione, è perfettamente inserita in questo affare. Essa gestisce infatti il sopracitato enorme centro SPRAR di Settimo torinese. Il “Teobaldo Fenoglio”, ex villaggio TAV per gli operai impegnati nella costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità, è stato recuperato dal Comune per trasformarlo in un centro di Protezione Civile. Molto probabilmente, la CRI si occuperà anche del futuro Hub nella caserma dell’aeronautica di Castello d’Annone in provincia di Asti, capienza 200 persone. Un filo che lega l’Accoglienza Secondaria degli immigrati al sistema di reclusione e deportazione.
Sono anche altre le cooperative nell’affare dell’accoglienza, che il più delle volte si uniscono in consorzi, raggruppamenti d’impresa che garantiscono un’organizzazione più razionale e una gestione più completa degli appalti. Il Consorzio La Valdocco ad esempio, a cui appartiene la coop Pietra Alta servizi Onlus, che gestisce un lotto d’accoglienza di richiedenti asilo a Torino, comprende 12 associazioni, ognuna delle quali specializzata in un servizio specifico per soggetti svantaggiati; si va insomma dall’animazione al servizio catering, dalle pulizie all’assistenza sanitaria, tutte mansioni garantite dall’eterogeneità del raggruppamento d’imprese. Un altro esempio di tale sistema, considerabile come un vero e proprio sistema di scatole cinesi, è rappresentato dalla rete di associazioni Non solo asilo composta da ben 18 nomi tra associazioni e coop. Questo raggruppamento è composto da svariati affiliati, anche molto diversi tra loro come la Coop Orso, la Coop Alice, Acmos, Pastorale migranti, PIAM, l’Associazione Somaalya Onlus, il Gruppo Abele e Engim Piemonte.
Un capitolo a parte meriterebbe la famosa associazione Terra del fuoco e della sua costolaBabel, fondata nel 2015 da Roberto Forte, già vicepresidente di Terra del Fuoco. Questo gruppo di coop da anni si è inserito nel business della gestione di rifugiati e dei richiedenti asilo in Piemonte, anche grazie alla benedizione garantita dal fondatore ed ex presidente Michele Curto, consigliere Sel al Comune di Torino. L’associazione ha partecipato in passato, all’interno di un Raggruppamento Temporaneo d’Imprese che comprendeva anche AIZO, Liberitutti,Stranaidea, la Coop Animazione Valdocco e la Croce Rossa Italiana, al famigerato progetto “La città possibile”, un programma di distruzione del campo Rom sul Lungo Stura Lazio e di trasferimento di alcuni dei suoi abitanti in altri edifici. Il risultato finale dell’operazione è stato quello di più di 1000 sgomberati, 600 ricollocati, 255 rimpatri volontari e 2 accompagnamenti al CIE di c.so Brunelleschi. È importante notare come molte riallocazioni gestite da Terra del fuoco siano avvenute all’interno degli appartamenti fatiscenti di Giorgio Molino, il famoso “ras delle soffitte” del capoluogo sabaudo. Il notissimo palazzinaro torinese, famoso per le proprietà e per gli sfratti di centinaia di persone, da tempo si è lanciato anch’egli nel business legato all’Accoglienza Secondaria. Infatti Molino e la presidente dell’associazione L’Isola di Ariel, oltre a siglare contratti d’affitto per appartamenti indirizzati a gruppi terapeutici, si sono accordati anche per l’accoglienza dei richiedenti, come succede per la struttura di via L’Aquila a Torino. L’Isola di Ariel è anche la prima ad aver messo in scena il lavoro gratuito dei richiedenti asilo con la pulizia dei parchi e delle strade del quartiere San Donato, facendo da apripista agli accordi successivi con le aziende.
Insomma, davanti a questa descrizione parziale della situazione piemontese, i richiedenti asilo e i rifugiati oggi sembrano, per tutti, cooperative e imprenditori locali, un affare molto più redditizio delle attività passate, su cui oggi lanciarsi a capofitto.
Gli enti gestori dell’Accoglienza sono, come detto, numerosi e presentano caratteri differenti. Guardando gli ultimi dati della Prefettura sui progetti SPRAR 2015 a Torino emergono entità delle più svariate. Ad esempio la Diaconia Valdese, gestore dell’accoglienza di 139 persone tra Torino e provincia, organo della Chiesa Evangelica Valdese che si occupa in molte zone d’Italia di servizi alla persona, assistenza socio-sanitaria, alternativa al carcere e formazione. L’Associazione Recosol - Rete dei Comuni Solidali, nata a Carmagnola ma diffusasi in molti comuni italiani, impegnata nel promuovere cooperazione decentrata nei Paesi in via di sviluppo e per ultimo lanciatasi nel guadagno dei progetti SPRAR. C’è poi la Progest Cooperativa sociale Onlus, gestore del centro per immigrati di San Gillio in provincia di Torino, che si occupa anche di servizi a minori, anziani e di centri terapeutici di salute mentale come le comunità terapeutiche “Il Barocchio” e “Il Giglio”. Poi la Codeal di Aosta, branca della più grossa 3bite, specializzata nella consulenza, nella realizzazione e nella gestione di soluzioni e di servizi integrati nel campo della comunicazione e delle nuove tecnologie. La coop Atypica, anch’esso gruppo assegnatario di una parte di un lotto d’accoglienza d’immigrati, che si occupa di mediazione culturale, infanzia e che gestisce anche un piccolo hotel all’interno del parco di Collegno. Alcuni enti sono nati e costruiti intorno ai progetti educativi e di mediazione culturale, come la Coop Edu-care e Terremondo, altri in progetti integrativi dei soggetti svantaggiati, come la Coop 610, altri ancora sono associazioni di promozione sociale come Tra-Me di Carignano o più schiettamente fornitrici di servizi come la Dinamo Coop. Insomma un panorama variegato ed eterogeneo.
Nella città di Torino, tra gli enti più presenti per la gestione degli appalti sulla Seconda Accoglienza ci sono il consorzio di cooperative Kairòs e la, sempreverde, Croce Rossa Italiana.Il consorzio di cooperative Kairòs è il gruppo fondatore e branca torinese della più conosciuta e famigerata Connecting People. Quest’ultima cooperativa non ha bisogno certo di presentazioni vista la sua decennale esperienza nella gestione dei Centri d’identificazione ed espulsione italiani.
Il consorzio estende la sua rete di guadagno su tutta la filiera dell’accoglienza ma non solo perché si occupa, per fare un esempio, attraverso l’associazione Ecosol, anche della gestione del lavoro dei detenuti nel carcere delle Vallette, oltre a essere una vera e propria potenza economica in città come produttore di welfare privatistico.
Attraverso la cooperativa Esserci, gestisce strutture della Seconda Accoglienza da centinaia di posti, allo stesso tempo promuove progetti per l’inserimento lavorativo attraverso accordi con la Regione e le aziende, creando un bacino di manodopera a costo zero attraverso il sistema delle borse lavoro elargite dalla Regione, 25 ore settimanali pagate 3,50 euro all’ora.
Il consorzio Kairòs non è l’unico esempio di chi vanta una lunga esperienza nella gestione dei CIE; la Croce Rossa che per anni e anni si è aggiudicata la gestione dei CIE italiani e ancora concorre per l’aggiudicazione, è perfettamente inserita in questo affare. Essa gestisce infatti il sopracitato enorme centro SPRAR di Settimo torinese. Il “Teobaldo Fenoglio”, ex villaggio TAV per gli operai impegnati nella costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità, è stato recuperato dal Comune per trasformarlo in un centro di Protezione Civile. Molto probabilmente, la CRI si occuperà anche del futuro Hub nella caserma dell’aeronautica di Castello d’Annone in provincia di Asti, capienza 200 persone. Un filo che lega l’Accoglienza Secondaria degli immigrati al sistema di reclusione e deportazione.
Sono anche altre le cooperative nell’affare dell’accoglienza, che il più delle volte si uniscono in consorzi, raggruppamenti d’impresa che garantiscono un’organizzazione più razionale e una gestione più completa degli appalti. Il Consorzio La Valdocco ad esempio, a cui appartiene la coop Pietra Alta servizi Onlus, che gestisce un lotto d’accoglienza di richiedenti asilo a Torino, comprende 12 associazioni, ognuna delle quali specializzata in un servizio specifico per soggetti svantaggiati; si va insomma dall’animazione al servizio catering, dalle pulizie all’assistenza sanitaria, tutte mansioni garantite dall’eterogeneità del raggruppamento d’imprese. Un altro esempio di tale sistema, considerabile come un vero e proprio sistema di scatole cinesi, è rappresentato dalla rete di associazioni Non solo asilo composta da ben 18 nomi tra associazioni e coop. Questo raggruppamento è composto da svariati affiliati, anche molto diversi tra loro come la Coop Orso, la Coop Alice, Acmos, Pastorale migranti, PIAM, l’Associazione Somaalya Onlus, il Gruppo Abele e Engim Piemonte.
Un capitolo a parte meriterebbe la famosa associazione Terra del fuoco e della sua costolaBabel, fondata nel 2015 da Roberto Forte, già vicepresidente di Terra del Fuoco. Questo gruppo di coop da anni si è inserito nel business della gestione di rifugiati e dei richiedenti asilo in Piemonte, anche grazie alla benedizione garantita dal fondatore ed ex presidente Michele Curto, consigliere Sel al Comune di Torino. L’associazione ha partecipato in passato, all’interno di un Raggruppamento Temporaneo d’Imprese che comprendeva anche AIZO, Liberitutti,Stranaidea, la Coop Animazione Valdocco e la Croce Rossa Italiana, al famigerato progetto “La città possibile”, un programma di distruzione del campo Rom sul Lungo Stura Lazio e di trasferimento di alcuni dei suoi abitanti in altri edifici. Il risultato finale dell’operazione è stato quello di più di 1000 sgomberati, 600 ricollocati, 255 rimpatri volontari e 2 accompagnamenti al CIE di c.so Brunelleschi. È importante notare come molte riallocazioni gestite da Terra del fuoco siano avvenute all’interno degli appartamenti fatiscenti di Giorgio Molino, il famoso “ras delle soffitte” del capoluogo sabaudo. Il notissimo palazzinaro torinese, famoso per le proprietà e per gli sfratti di centinaia di persone, da tempo si è lanciato anch’egli nel business legato all’Accoglienza Secondaria. Infatti Molino e la presidente dell’associazione L’Isola di Ariel, oltre a siglare contratti d’affitto per appartamenti indirizzati a gruppi terapeutici, si sono accordati anche per l’accoglienza dei richiedenti, come succede per la struttura di via L’Aquila a Torino. L’Isola di Ariel è anche la prima ad aver messo in scena il lavoro gratuito dei richiedenti asilo con la pulizia dei parchi e delle strade del quartiere San Donato, facendo da apripista agli accordi successivi con le aziende.
Insomma, davanti a questa descrizione parziale della situazione piemontese, i richiedenti asilo e i rifugiati oggi sembrano, per tutti, cooperative e imprenditori locali, un affare molto più redditizio delle attività passate, su cui oggi lanciarsi a capofitto.
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macerie @ Maggio 18, 2016
Azione in solidarietà agli arrestati del 7 Maggio al Brennero.
Rovereto - "Per gli arrestati al Brennero": sassaiola contro la caserma della polizia locale.
Apprendiamo dai quotidiani locali che, verso le 23,00 del 12 maggio, un gruppo di anonimi ha attaccato con le pietre la caserma della polizia locale di Rovereto: colpite le vetrate e un furgone. Sul muro davanti alla caserma sarebbe stata lasciata la scritta: "Per gli arrestati al Brennero".
Contributo sulla giornata di lotta alla frontiera del Brennero dal TeLOS
Questo doveva essere e questo è stato il 7 maggio al Brennero. In un'epoca con poco slancio e dalle passioni tristi sono state innanzitutto messe al loro posto alcune questioni linguistiche e semantiche: resistere significa resistere, no alle frontiere significa no alle frontiere. Malgrado tutti i limiti e gli ostacoli del caso constatiamo che diverse centinaia di compagni hanno deciso di gettare il cuore oltre l'ostacolo e passare dalle parole ai fatti.
Una giornata significativa e importante in sé, ma l'onda generata da una giornata così sarà senza dubbio lunga, e starà nel riportare nei diversi territori la stessa determinazione.
Proprio perché l'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, proprio perché questa società ha bandito l'avventura appassionante della vita, proprio perché dietro a questa facciata di marmo se noi continuiamo a picconare forse si troverà un filone d'oro.
E allora che si superino i limiti, si abbattano le frontiere, si fermino gli orologi.
TeLOS
Bologna - Cortei selvaggi in solidarietà con i fermati alla manifestazione contro la frontiera al Brennero
Fermati al Brennero anche due bolognesi, manifestazioni in città
Gli attivisti No border sono stati rilasciati il giorno dopo. In solidarietà a tutti gli arrestati dopo gli scontri al valico tra Italia e Austria, sabato sera e domenica pomeriggio sono pariti due cortei spontanei.
Fermati e rilasciati dopo diverse ore due attivisti No border che erano partiti ieri da Bologna per partecipare alla manifestazione al valico del Brennero. In centinaia erano giunti al confine tra l’Italia e l’Austria per protestare contro la chiusura dei confini in Europa. Duri gli scontri tra la polizia di confine e i manifestanti. A fine giornata si apprende la notizia dell’arresto di cinque persone e del fermo di altri diciotto manifestanti. Contro il corteo determinato che provava ad attraversare la frontiera la polizia non ha risparmiato l’uso di manganelli ed un fitto lancio di lacrimogeni.
Di rientro dalla giornata al Brennero, in serata, al grido di “Tout le monde déteste la police”, un corteo selvaggio ha attraversato le strade della Bolognina per chiedere l’immediato rilascio degli attivisti arrestati durante il corteo della mattina. Al passaggio dei manifestanti alcuni cassonetti della spazzatura di via Matteotti sono stati ribaltati e alcune transenne sono state divelte provocando qualche disagio al traffico cittadino.
Anche nel pomeriggio di domenica le azioni di solidarietà sono proseguite con un breve presidio in piazza Maggiore. Subito dopo in una cinquantina hanno attraversato via Ugo Bassi dove si sono fermati davanti il consolato d’Austria per chiedere ancora una volta libertà per gli arrestati del giorno prima al Brennero. Gli stessi attivisti No border hanno poi proseguito fino in via del Pratello, presidiata da tre blindati della polizia e forze dell’ordine in assetto anti sommossa.
Così un comunicato rilasciato oggi a firma di alcuni “Solidali e compagn* di Bologna” in solidarietà agli arrestati: “C’è una parte del mondo incredibilmente ricca, ed una che l’ha resa tale. A suon di guerra, colonialismo, accordi con dittatori, il ‘Nord’ ha preso risorse e lavoratori da sfruttare. Ma questo benessere che è solo per pochi e non per tutti/e: anche in Europa, c’è uno spazio sempre più ampio fra chi opprime e chi è oppresso, e in entrambe le classi ci sono sia nativi che migranti. Per questo gli Stati sostengono la propaganda razzista e tengono nel ricatto del permesso di soggiorno chi arriva da altri paesi: per poterli ricattare e sfruttare, dirottandogli contro l’odio che meriterebbero i padroni, provocando una guerra tra poveri. Un esempio di questa politica è quello delle barriere e dei muri che si stanno costruendo in luoghi di passaggio. In questo caso, è l’Austria a finanziare la prima barriera visibile a tutti nel ‘cuore’ dell’Unione Europea, la prima al suo interno. Per questo ieri, sabato 7 maggio, un corteo si è mosso dalla stazione di Brennero, per sottolineare cosa significhi la proposta austriaca, per non dimenticare le tante frontiere che già isolano l’Europa per terra e per mare. Sappiamo bene da che parte stare: con i/le cinque compagni/e attualmente in stato di arresto. Al grido di ‘Abbattere le frontiere’ si voleva ribadire che non siamo disposti ad accettare nessun tipo di confine, né fisico né mentale. L’unica libertà di movimento accettata è quella delle merci e dei capitali, unico motivo per cui l’Europa ha minacciato ripercussioni per l’eventuale creazione di un materiale confine interno”.
NON SEMPRE LA FORTUNA AIUTA GLI AUDACI
Solidarietà e complicità con i compagn* arrestati al Brennero.
Scenari apocalittici di un futuro fascista, le destre prendono piede in Europa, muri che si alzano e confini che si chiudono, deportazioni e campi di detenzione.
I gerarchi del capitalismo globale sono disposti a chiudere il valico del Brennero pur di fermare il transito agli esseri umani. Le persone devono essere fermate anche a costo di contraddire gli stessi principi costitutivi della UE, scricchiolante di fronte alla prima ondata migratoria.
Sapevamo bene cosa stavamo andando a fare il 7 maggio al corteo “Abbattere le frontiere al Brennero e ovunque”, sapevamo bene cosa volesse dire sfilare in un corteo non autorizzato attraverso un valico largo 370 metri da montagna a montagna. Sapevamo che la geografia del luogo era tutta a nostro sfavore.
Sapevamo tutto questo ma sapevamo anche che se un domani, in un futuro fatto di reti, fili spinati e muri, qualcuno ci chiederà “Quando costruivano l`ennesimo muro in Europa tu dov’ eri?`”, noi potremo dire di essere stati la` per provare ad abbatterlo, scagliando la prima pietra, in continuità con i percorsi di solidarietà e lotta con i migranti attivati a Monza e il supporto alle mobilitazioni e pratiche NoBorder, da Ventimiglia a Calais.
Doveva essere una giornata di lotta e così e` stato. C`e` voluto coraggio, ma non sempre la fortuna aiuta gli audaci. Svariati fermi si sono tramutati in sei arresti: due compagne e quattro compagni, dopo una lunga permanenza nella questura del Brennero, si trovano ora in carcere.
Uno di loro e` il nostro compagno, amico e fratello Cristian “Sicho” a cui va tutta la nostra totale complicità e solidarietà, iniziata già sabato stesso all’immediata notizia del fermo con un corteo spontaneo per le strade di Monza.
Domenica diversi striscioni sono apparsi nella curva del Masnada e nel concerto della scena hardcore di cui Sicho fa parte. A Bolzano un saluto al carcere ha portato il nostro calore dentro quelle mura dimostrando agli arrestati che non saranno mai soli.
Oggi stesso al tribunale di Bolzano si tiene l`udienza per direttissima per le misure cautelari e un presidio è chiamato lì davanti dalle 9 di mattina.
La solidarietà è solo all’inizio, abbiamo il fiato lungo.
SICHO, SABRINA, MIRIAM, NEMO, STEFANO, LUCA LIBERI SUBITO!
ABBATTERE OGNI FRONTIERA!
DELLE GALERE SOLO MACERIE!
Foa Boccaccio 003
CordaTesa
Tarantula
ABBATTERE OGNI FRONTIERA – Solidarietà con i compagni e le compagne arrestati al Brennero
Il filo spinato di una base militare non è diverso da quello che si trova lungo una frontiera.
Tagliare le reti di un poligono significa dimostrare che i limiti imposti dagli stati sono valicabili. Lottare per distruggere le frontiere assume la stessa valenza.
I confini diventano barriere che vengono innalzate per impedire l’accesso a chi è ritenuto scomodo, un problema da risolvere con burocrazia e manganelli, frontiere e CIE, hot spot e galere.
L’obiettivo del corteo del 7 maggio al Brennero è stato chiaro, dimostrare con determinazione di voler abbattere le frontiere e prendere una posizione netta scegliendo da che parte stare: quella degli sfruttati, contro ogni sfruttatore.
La risposta della repressione non si è lasciata attendere: cariche ripetute, lacrimogeni e manganellate hanno lasciato il segno ma non hanno impedito che per alcune ore la ferrovia e l’autostrada fossero bloccate.
Il prezzo da pagare è stato alto: oltre le contusioni e le ferite, infatti, 4 compagni e 2 compagne sono stat* arrestat*.
Gli sbirri si sono rivelati per quello che sono, l’ennesima frontiera posta ad ostacolo alla libertà, una frontiera prezzolata e sostenuta dagli Stati che nella giornata di ieri ha dimostrato la sua ferocia.
Per questo ci sentiamo complici con chi lotta per rendere valicabili questi limiti, con chi il 7 maggio ha espresso fermamente la propria volontà di abbattere le frontiere. Tutta la nostra solidarietà va ai/alle compagni/e arrestati/e.
Contro ogni frontiera, contro ogni limite invalicabile, per la libertà.
SOLIDARIETA’ CON SABRINA, MIRIAM, STEFANO, CRI, LUCA, NEMO
TUTTE LIBERE, TUTTI LIBERI
Alcuni antimilitaristi sardi
Testo distribuito in val Pellice il 6 e il 7 Maggio sulla frontiera in costruzione e sulla giornata di lotta al Brennero: