Venerdì 9 febbraio a Trento e domenica 11 febbraio a Rovereto ci sono stati due cortei non autorizzati, il primo contro la commemorazione delle “vittime delle foibe” organizzata da Casapound e il secondo contro il comizio elettorale di Salvini. Crediamo valga la pena di raccontarli un po' nel dettaglio.
Il corteo di Trento è stato pubblicizzato con qualche giorno di anticipo, non appena si è saputa la data della presenza di Casapound. La settimana prima si è tenuto in città un incontro pubblico contro la falsificazione storica operata dal Giorno del Ricordo (selettivo), mentre si è deciso di incentrare la manifestazione del 9 febbraio sull'oggi, sui campi di concentramento in Libia, sul ruolo del governo Gentiloni-Minniti e dell'Eni, nonché sul diffondersi dei gruppi fascisti e del rancore razzista. Prima i fatti di Macerata con le relative prese di posizioni politiche, e poi la notizia dell'arrivo di Salvini a Rovereto, ci hanno spinto a lanciare, il venerdì stesso, un appuntamento in piazza anche per la domenica, e a pensare i due cortei come conseguenti.
A Trento, davanti a Sociologia, ci troviamo in un centinaio. Le recenti aggressioni neofasciste e soprattutto la sparatoria del fascioleghista Traini rendono gli animi carichi di rabbia e di volontà di vendetta (“L'antifascismo non è una sfilata, Macerata va vendicata” è uno degli slogan). Il corteo autodifeso raggiunge la piazza poco distante dal punto in cui si radunano una ventina di militanti di Fratelli d'Italia e in seguito una cinquantina di Casapound. La zona è blindata dalla Celere e dai carabinieri in antisommossa. Gli interventi e gli slogan dei compagni proseguono fino a quando la commemorazione finisce e i fascisti se ne vanno. È piuttosto chiaro che tale contestazione lascerebbe a tutte e tutti un sentimento di frustrazione, per il fossato tra gli slogan di battaglia e la realtà immediata.
Si riparte in corteo, mentre i reparti antisommossa rimangono in piazza a presidiare il nulla. Nel percorso viene bersagliata con uova di vernice la sede di Fratelli d'Italia. Poi il corteo passa, in pieno centro, accanto ad un negozio (il Funky), il cui titolare (Nicola Paolini) è un nazi che aveva accoltellato qualche anno prima un ragazzo antifascista ad Arco. Qualcuno pratica a mazzate un foro nella vetrina antisfondamento e qualcun altro vi inserisce il tubo di un estintore che viene poi azionato, provocando ingenti danni al negozio di abbigliamento, l'indomani chiuso e svuotato. Scritte sui muri spiegano il perché dell'azione, che viene assunta dal corteo (e anche nei giorni dopo, quando escono pubblicamente le responsabilità di Paolini). Urge dare una risposta ai fascisti, a chi li legittima e protegge, al sistema di cui sono i servitori. In varie altre città gli inviti alla calma non vengono raccolti.
Con questo spirito, nonostante il preavviso risicato, si lancia l'appuntamento a Rovereto: Macerata va vendicata. Che questo spirito non sia solo quello dei compagni in senso stretto, lo si comprende, lo si sente. E infatti anche domenica sera, senza manifesti né grandi proclami, ma con intenti chiaramente affermati, ci troviamo di nuovo in un centinaio, con una composizione che riflette abbastanza bene la rete di solidarietà che le lotte hanno costruito negli anni.
In piazza si arriva alle 20,00 già con scudi, caschi e bastoni. Uno dei due striscioni dice: “Traini soldato di Salvini. La bomba sociale siete voi, basta buonismo lo diciamo noi”. La Questura probabilmente non si aspetta una contestazione di un certo tipo, infatti la Celere è presente in forze più ridotte rispetto al venerdì (una quarantina di agenti invece del centinaio abbondante di due giorni prima). Rimedia schierando un blindato di traverso e un altro verso i manifestanti. Siamo in corso Rosmini, sul viale principale di Rovereto. Si comincia con un elegante gesto atletico: un compagno strappa di corsa una bandiera a un
gruppetto di leghisti e torna con passo molleggiato nel corteo; a strappare l'infame drappo ci pensa una signora magrebina di passaggio. Un gruppetto di contestatori si sposta verso l'ingresso secondario della sala, il cui portone viene chiuso dalla polizia, perché non riuscirebbe a garantire l'accesso ai leghisti. Quando, poco dopo le 21,00, si capisce che dal lato opposto del viale rispetto a dove c'è il corteo sta arrivando Salvini, partiamo provando a sfondare il cordone della Celere. La carica parte violenta, aiutata dal blindato che avanza a lato dei poliziotti e rende ancora più problematica la già difficile tenuta degli scudi-striscioni. Persi questi ultimi, i cordoni dei compagni non riescono più a reggere, quindi retrocedono. La carica della Celere viene fermata prima dal getto di un estintore e poi, creatasi la giusta distanza, dal lancio di bottiglie, sassi e un paio di bombe carta. Il corteo
retrocede compatto e si assesta qualche decina di metri dopo, mentre qualcuno manda in frantumi i finestrini di due auto dei carabinieri e della polizia in borghese. Qualcuno comincia a disselciare il porfido; la Celere indossa le maschere antigas. Compaiono due grandi scritte: “Macerata terrorismo fascista. Vendetta” e “Salvini mandante di Traini”. Dopo un'altra mezz'ora di interventi (la compagna al megafono è un vero e proprio martello!), il corteo riparte e, vergate un po' di scritte sui muri, si scioglie in un'altra parte della città. Qualcuno vorrebbe continuare, mentre per altri “va bene così: si è fatto quello che si è detto”. Il corteo si conclude.
Mentre il patetico questore di Trento, in un'intervista a tutta pagina su “L'Adige”, invita “l'opinione pubblica” a isolare gli anarchici, attaccando espressamente la gente che ha lottato con noi in questi anni, facciamo alcune considerazioni.
La nostra capacità di reggere il corpo a corpo con la Celere è quella che è, ma domenica bisognava provarci con tutto il cuore. In tanti ci hanno detto che dietro le prime file non si sono mai sentiti in pericolo, e li ringraziamo per essere scesi in strada nonostante la paura (che non era la loro soltanto, perché gli eroi sono roba da film) e di essere rimasti fino alla fine. A chi pontifica da lontano dicendo che “non sono questi i metodi”, rispondiamo: “Trovatele voi le forme di protesta che vi soddisfano, ma fatelo; perché quando il razzismo apre il fuoco, ogni silenzio, ogni rinvio a una non meglio precisata “cultura” (che poi molto spesso è pura e semplice ignavia) è complicità”. Altri, che in strada c'erano, hanno
fatto notare che sarebbe stata una buona tattica quella di aspettare con un piccolo gruppo l'arrivo di Salvini anche oltre il cordone della Celere, di modo che un altro punto di contestazione facesse dividere la polizia. Con più tempo a disposizione e un altro po' di gente, avremmo potuto farlo. Magari alla prossima occasione...
Le posizioni razziste stanno dilagando nel sociale e i gruppi neofascisti ovviamente ne approfittano. La sinistra (anche “di movimento”) ha cercato in tutti i modi di disarmare le risposte di piazza alle aggressioni squadriste e alla tentata strage di Macerata. In vari, invece e per fortuna, hanno fatto l'esatto contrario: soffiare sulla rabbia.
Più si aspetta e più l'antifascismo democratico (di fatto complice con il razzismo di Stato targato PD) guadagnerà terreno. E poi... solo i morti viventi fanno calcoli quando la “linea di condotta” dovrebbe dettarla la rabbia.
Quando si vuole battersi, i mezzi si trovano.
Se il fascioleghismo non si può sconfiggere solo nelle piazze (dove è ben protetto), ricominciare a disselciare la pacificazione sociale è
comunque fondamentale anche per tutto il resto.
Più lo si fa, più si impara a farlo.
Compagne e compagni dal Trentino